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Benvenut al primo numero di Interstizi,
una newsletter occasionale che nasce dal bisogno di mettersi insieme, di condividere riflessioni e pensieri fuori da uno spazio predefinito. Una piattaforma informale di confronto e di ricerca su arte, pop culture e attualità che speriamo possa aprirsi nel tempo a tanti punti di vista e modalità espressive diverse. Uno spazio fisico e mentale per germogliare, condividere quello che ci sta a cuore, raccontare e raccontarsi, trovare la propria voce ma anche lanciarsi in qualche sano rant.
In questo primo numero - nato ormai diversi mesi fa, in un limbo temporale sempre più confuso - parliamo del disapprendimento come strumento di costruzione collettiva, segnaliamo alcune importanti iniziative portate avanti dalle lavoratrici e dai lavoratori dell’arte in questi ultimi mesi, raccontiamo di intellettuali (e non) a cui dovrebbero togliere il telefono e vi presentiamo il lavoro della fotografa Carrie Mae Weems. Infine, condividiamo un po’ di cose che abbiamo letto, visto e ascoltato e che abbiamo amato particolarmente 🍒
Buona lettura!
Fabiola & Giulia
Panorama
Disimparare la normalità
È ottobre 2020 e sono passati circa dieci mesi dall’inizio di una pandemia che ha prodotto un totale ribaltamento del nostra rapporto con la realtà. Qualche mese è passato anche da quando abbiamo cominciato a scrivere questo testo, con lunghissime pause e tanti ripensamenti. Dopo confronti e riflessioni rimangono dei punti che ci sembra importante fissare.
Negli ultimi mesi abbiamo visto manifestarsi con sempre più forza tutte le diseguaglianze, contraddizioni e distorsioni dell’attuale organizzazione sociale ~ alcuni articoli per approfondire qui, qui e qui ~ rendendo chiaramente visibile la nostra vulnerabilità come individui ma soprattutto come società. Chiuse in casa, quando non costrette ad esporci in contesti produttivi ad alto rischio e non sempre essenziali, travolte da informazioni discordanti e timori, ci siamo trovate a dover mettere in discussione l’ordinario, tutte quelle dinamiche e interazioni normalizzate dalla quotidianità e dalle necessità della coesistenza. Dopo anni in cui i confini tra tempo del lavoro e della vita sono diventati sempre meno netti, la quarantena ha compiuto la crasi definitiva imponendo nuovi tempi, nuovi strumenti, nuovi modi di vivere il nostro spazio, il nostro quartiere, il nostro lavoro.
Una dimensione che abbiamo sentito di dover immediatamente mettere a valore, come un bisogno viscerale quanto indotto. Sorge spontaneo interrogarsi sui motivi per cui davanti ad una pandemia ci è sembrato necessario imparare una nuova lingua, avviare una produzione industriale di tortellini brutti (ma buoni) o perfezionare la nostra night routine.
Storicamente, paura e disordine sono stati - e continuano ad essere - catalizzatori fondamentali di ogni grande cambiamento. Come analizzato da Silvia Federici in Calibano e la strega (2004), uno dei fattori che portarono allo sconvolgimento del sistema economico feudale e conseguentemente alla lenta nascita del capitalismo fu proprio la pandemia di peste nera del 1348. I momenti di trauma collettivo offrono infatti fantastiche opportunità per dedicarsi a misure di ingegneria sociale ed economica. Naomi Klein in The Shock Doctrine (2007) analizza come le crisi non rappresentino un evento straordinario per il capitalismo, ma ne siano anzi parte integrante e costitutiva. La maggior parte dei sopravvissuti a un disastro, di qualsiasi natura esso sia, tende a voler salvare e riparare ciò che non è stato distrutto, a riaffermare il proprio legame con la propria terra. Ma i fautori del capitalismo dei disastri non hanno nessun interesse a restaurare ciò che era prima. In Iraq, nello Sri Lanka e a New Orleans, la «ricostruzione» iniziò portando a compimento il lavoro svolto dal disastro, spazzando via cioè quanto rimaneva della sfera pubblica, per rimpiazzarlo in tutta fretta con opere di speculazione edilizia e finanziaria: il tutto prima che le vittime del disastro naturale fossero in grado di coalizzarsi e reclamare ciò che spettava loro di diritto.
Parallelamente, i momenti di crisi vengono visti come un’opportunità anche da chi auspica la distruzione di sistemi come quello capitalista. Tornando a Federici e alla sua storia del Medioevo, eresie, proteste, rivoluzioni ed esperimenti di nuovi modi di vita collettiva, già in atto prima del 1348, si intensificarono al punto che lo stato e i proto capitalisti dovettero ingaggiare una lotta senza quartiere per instaurare il nuovo sistema. Se guardiamo ai nostri tempi, la definizione collettiva di un nuovo paradigma sociale è in corso da anni, portata avanti da movimenti locali e transnazionali. Tuttavia, come evidenzia Ceceña nell’articolo On the Complex Relation Between Knowledges and Emancipations (2012), lo sviluppo e l’imposizione di un nuovo paradigma sociale è maggiormente osservabile in quei contesti “[where] rhythms are disrupted and the social roles imposed by the dynamics of domination are forgotten”, in spazi della ricostruzione collettiva.
In un contesto che ci chiede e che ci vorrebbe insegnare nuovi modi di stare insieme, di interagire, di produrre, pensiamo che la scelta più giusta sia scegliere di disimparare. Disapprendere tutte quelle norme, comportamenti, idee e automatismi che definiscono e regolano il modo in cui stabiliamo i rapporti all’interno della società. Come esseri umani tendiamo generalmente a muoverci entro un ambito cognitivo delimitato dalle nostre esperienze personali e dalle convinzioni acquisite - ciò che in psicologia viene definito bias di conferma - e questo ci porta a vivere con diffidenza e frustrazione fatti e informazioni che vanno contro il nostro modo di vedere le cose. Questa è una delle ragioni per cui risulta spesso più facile credere ad una cospirazione che affrontare criticamente le proprie abitudini di vita. Ripensare e dunque trasformare il modo in cui viviamo e percepiamo il mondo ci permette non solo di aprirci a nuovi saperi ma di creare forme di relazione e apprendimento totalmente nuove. Davanti ad una situazione di grande stress come quella in cui ci siamo trovati lo shock può diventare uno strumento di distruzione e superamento.
Non un processo acritico di innovazione, che sottende in realtà una continua riaffermazione della realtà e preclude ad ogni tipo di conflittualità, ma una scelta politica. Accogliere i sentimenti di rabbia ed inquietudine invece di rigettarli o contrastarli per un apparente benessere. Nel volume Learning and Unlearning, edito da Avi Alpert e Sreshta Rit Premnath, ci si chiede: By unlearning our relationship to the places and temporalities we occupy, can we learn new ways of inhabiting the world? Il disapprendimento viene posto come strumento fondamentale della costruzione di una nuova normalità: si concentra su quelle forme incorporate di conoscenza e sul funzionamento (non) consapevole dei modi di pensare e di fare con l’obiettivo di avviare una ricerca attiva e critica su nuove strutture e pratiche normative. Basandosi sui valori dell’auto-critica e della vulnerabilità, il processo di disapprendimento si traduce spesso in maggiore consapevolezza ed emancipazione.
Dunque cosa dobbiamo disimparare?
Partendo dalle parole di Gayatri Spivak, sicuramente un primo passo importante è “unlearn one’s learning and unlearn one’s privilege”. Prendere consapevolezza del proprio posizionamento nel mondo come individui, dei propri privilegi e delle responsabilità che questi comportano. Il disapprendimento non è necessariamente un processo pacifico, anzi spesso ci pone in una posizione scomoda, faticosa ma è in grado di aprire dei brave spaces, come definito da Brian Arao e Kristi Clemens (2013), spazi emotivi in cui ci esponiamo a forti emozioni, rotture, contraddizioni e conflitti come risultato naturale delle nostre diverse visioni.
L’organizzazione olandese Casco Art Institute di Utrecht ha avviato nel 2014 in collaborazione con l’artista Annette Krauss il progetto di ricerca Site for Unlearning (Art Organization)volto a riflettere e mettere in pratica il disapprendimento come atto collettivo e strumento organizzativo. Disimparare non solo come individui dunque ma anche come istituzione e collettività. Il progetto si è concentrato sulla decostruzione di tutte quelle strutture e dinamiche sociali lungamente interiorizzate che regolano il lavoro e le interazioni nell’ambito del lavoro artistico e culturale. Il processo è stato molto lungo, partendo da incontri bisettimanali in cui i membri dell’organizzazione parlavano di ciò che avrebbero voluto disimparare come parte di un’organizzazione artistica, sia per quanto riguarda la parte pubblica del proprio lavoro, sia la gestione delle relazioni interne. Il progetto partiva anche dal riconoscimento di un paradosso sostanziale ovvero la natura di Casco in quanto istituzione pubblica, con una responsabilità sociale in una società che si basa su valori neoliberisti e capitalistici. È possibile dunque disimparare quei valori capitalistici e sostituirli con altri valori sociali dei beni comuni? E quale ruolo può svolgere l'artista in questo?
Uno dei risultati più interessanti del processo di ricerca è stato il riconoscimento del valore del lavoro riproduttivo e del ruolo fondante che questo ha nello sviluppo del lavoro artistico, spostando così l’attenzione su come rendere visibile la portata di quei compiti essenziali che dovrebbero contribuire al nostro senso di produttività, piuttosto che toglierlo (inviare un comunicato stampa sembra ancora più importante della pulizia o delle attività di accoglienza). Una riflessione importante sul lavoro riproduttivo e di cura che necessita di un approfondimento a parte e che verrà fatto in uno dei prossimi numeri.
Tanto Spivak quanto Krauss ci portano a riflettere su temi estremamente attuali: rivalutare i nostri privilegi (sociali, economici, razziali, di genere) e disapprendere quello che pensiamo di sapere sul lavoro. Alla luce di quello che abbiamo vissuto negli ultimi mesi, penso sia giusto evidenziare però anche la necessità di rifiutare il bisogno di essere sempre performanti, anche di fronte ad una pandemia globale. Smettere di accettare lo status quo quando non tutela tutti allo stesso modo. Rivendicare il tempo e lo spazio personale senza la paura del giudizio. Il valore alla base del disapprendimento sta proprio nella possibilità di scegliere un modello mentale e comportamentale alternativo. Quando impariamo, aggiungiamo nuove abilità o conoscenze a ciò che già sappiamo. Quando disimpariamo, usciamo da un modello mentale per sceglierne uno diverso.
Fotoromanzo
// Nell'agosto del 2020 - in un periodo particolarmente complesso anche a causa dell’emergenza sanitaria legata al Covid19 - la Tate Enterprises ha annunciato 313 licenziamenti, riguardanti i dipendenti dei loro negozi, caffè e dipartimento editoriale, aree che includono i team più diversificati e meno pagati della Tate. I membri del sindacato PCS Tate United hanno dunque indetto uno sciopero dal 18 agosto, organizzato proteste, incontri e dibattiti e ottenendo sia online, che offline il sostegno di molti artisti, scrittori e politici. Il 1° ottobre, dopo 42 giorni di sciopero e diversi incontri negoziali tra l'alta dirigenza della Tate Enterprises, PCS Tate United e il mediatore ACAS, i membri del sindacato hanno votato a favore della sospensione dello sciopero in attesa della finalizzazione dei dettagli di un'offerta.
// La collaborazione tra Il Campo Innocente e CHEAP ha portato all’affissione nelle strade di Bologna di poster legati alla campagna COME STIAMO | Kit di pronta emergenza da portare con sé in caso di improvvisa ripartenza del sistema arte e spettacolo in era post-pandemica nata da il collettivo Il Campo Innocente nel giugno 2020.
// [ART WORKERS ITALIA] è un gruppo informale, autonomo e apartitico, di lavoratrici e lavoratori delle arti contemporanee, formatosi su base partecipativa nel contesto dell’attuale crisi dovuta alla pandemia di Covid-19. Negli ultimi mesi [AWI] ha preso parte ad incontri e dibattiti nazionali e internazionale e ha lanciato diverse campagne con l’obiettivo di portare avanti una riflessione collettiva sulla situazione lavorativa all’interno del sistema dell’arte contemporanea attuale. Vi invitiamo a leggere e sottoscrivere il Manifesto.
Interludio
un articolo in più
No filter: sull’essere critici, liberi e sovversivi durante una pandemia globale.
Qualche tempo fa, Jorg Heiser ha pubblicato su Art Agenda Reportsl’articolo ‘“Artists in Quarantine,” public intellectuals, and the trouble with empty heroics’. L’articolo si apre con la domandaWhat does it mean to be critical, subversive, nonconformist, and free during a global pandemic?e, nella prima sezione, riflette su uno dei moltissimi progetti online per artisti promossi dalle istituzioni culturali durante la quarantena. La prima riflessione di Heiser si concentra sul modo in cui la maggior parte delle organizzazioni culturali, degli artisti e degli intellettuali che operano all’interno del mondo dell’arte e della cultura abbiamo cercato di restare rilevanti, nonostante la chiusura dei luoghi in cui normalmente operano. Questo è risultato nella produzione frenetica di contenuti di cui Heiser critica la rilevanza, ed è in realtà un tema che meriterebbe un articolo tutto suo e che per il momento lascerò cadere.
La seconda, importantissima, riflessione di Heiser si apre con queste parole:
To subvert power you need a clear idea of what it is you’re attempting to resist. Without that, the invocation of resistance in the name of civil rights or progressive goals is ineffective, counterproductive, or simply false. (...) A similar confusion might underpin the assessment of protests in general: Are they resisting a government whose dictatorial tendencies are supposedly manifested in the implementation of lockdown measures? Or are they resisting a government whose dictatorial tendencies are manifested in their reckless disavowal of such lockdown measures?
Stiamo entrando in una stagione autunno-inverno che si preannuncia particolarmente complessa. I casi di Covid-19 sono tornati ad aumentare con numeri altissimi in tutto il mondo, provocando ancora più confusione e disinformazione. Le riflessioni di Heiser su cosa voglia dire mantenere un pensiero critico in questo periodo restano urgenti e interessanti.
Nella seconda metà dell’articolo, Heiser cita Giorgio Agamben come esempio principale di queste dinamiche, evidenziando come la disinformazione e le teorie complottistiche avallate dal filosofo abbiamo avuto forti ripercussioni tra diversi intellettuali tedeschi e, a mio avviso, anche italiani. Tra le affermazioni di Agamben troviamo diversi evergreen, che oramai abbiamo sentito ripetere dalle persone più disparate in tutto il mondo, tra cui “Il Covid è poco più che un’influenza”, attacchi a medici e scienziati e persino l’assurda affermazione che la quarantena abbia limitato le nostre libertà personali più che il fascismo. Le parole di Agamben, un “intellettuale” “di sinistra” (credo che le virgolette, qui, siano d’obbligo) sono le parole dell’estrema destra globale, le parole della disinformazione più totale, ottusa e ostinata, riprese e validate sui social media.
Gli algoritmi di Facebook e Instagram, che fino ad ora hanno evitato a molti di noi di trovare questa tipologia di contenuti in quanto diametralmente opposti da quello che solitamente consumiamo online, hanno improvvisamente smesso di funzionare: erano alcuni dei miei contatti che, adesso, li stavano pubblicando. La bolla è scoppiata, il filtro si è frantumato. E il contagio è stato rapido, abbastanza contenuto, ma pur sempre sorprendente, sdoganato da figure come Agamben e rafforzato dal meccanismo di gruppo. Stiamo assistendo ad una disinformazione collettiva, una bolla nella bolla dei gruppi di intellettuali del mondo della cultura/arte che si rafforza e gonfia da sola. Queste persone non rispondono necessariamente al profilo del “complottista” da tastiera, ma inaspettatamente si tratta dei grandi privilegiati della nostra società: spesso maschi e bianchi, quasi sempre istruiti e benestanti, persone note in Italia quando non anche all’estero in campi come filosofia, letteratura, critica d’arte. Persone che dovrebbero essere in grado di valutare le fonti delle notizie che condividono e di distinguere il vero dal falso, particolarmente lavorando in mondi come quello dell’arte e dell’accademia. Il pensiero critico, per loro, è sorprendentemente andato a coincidere con la negazione di quanto sta accadendo, con l’idea che visto che i poteri forti ci vogliono tenere nascoste molte cose allora alcune fake news potrebbero essere tanto vere quanto Il Capitale di Marx.
A rendere ancora più complessa la situazione è intervenuta anche l’idea di cancel culture, di cancellare dalla scena pubblica persone che utilizzano le loro piattaforme per diffondere contenuti razzisti, sessisti, transfobici, abilisti ecc. La cancel culture è un fenomeno che innumerevoli articoli e podcast hanno discusso e sviscerato, ma qui per brevità possiamo considerare una versione meno controversa -- la accountability culture. In questo caso, si mette in discussione il diritto di esprimere opinioni offensive, senza voler poi affrontare le conseguenze di quanto viene detto e aprirsi alle critiche. Per intellettuali abituati a dare per scontato una posizione di autorità e un riconoscimento verso il proprio pensiero, l’idea di rimettere tutto in discussione, disimparare, ascoltare voci che solitamente vengono lasciate ai margini rinunciando al palcoscenico e allo status di genio può sicuramente risultare molto difficile. Ed ecco che allora dissentire, distaccarsi dalla accountability culture diventa un modo di ergersi oltre i vincoli del ‘politicamente corretto’, anche quando questo significa entrare nel territorio delle teorie del complotto o delle ideologie dell’estrema destra (già solo l’idea di ‘politicamente corretto’ utilizzato come termine-copertura per mascherare idee profondamente offensive per specifiche categorie di persone è parte di un linguaggio di destra).
All of these examples beg the question of why artists and intellectuals pay lip-service to social causes or, worse, promote stale concepts of the free-spirited intellectual who heroically dissents from the petit-bourgeois majority and their lemming-like submission to in-the-closet Hitlers. The answer is simple: because not doing so would require them to admit to themselves and others an unsettling sense of existential insecurity. That is hard to do, so the typical panic reaction has been to rehash preconceived notions to fit new circumstances.
Essere liberi e sovversivi durante una pandemia globale non vuol dire ergersi eroicamente al di sopra della maggioranza, i “piccoli borghesi” che si piegano alle regole imposte dai “regimi”. Si tratta, forse, di accettare il fatto che non possiamo sapere e controllare tutto - un concetto socratico e purtroppo passato di moda in questo mondo in cui bisogna avere un’opinione su tutto e ammettere di non sapere non fa di una persona il più sapiente (come per Socrate), ma quello che rimane ai margini dell’economia dell’attenzione.
In conclusione all’articolo, Heiser individua tre azioni principali da cui ripartire per rispondere, in qualche modo, a questi atteggiamenti, che qui riporto, commentandoli e ampliandoli liberamente:
1-Arte e cultura dovrebbero diventare un terreno su cui ripensare al significato di “cura” in termini radicali; criticare gli attuali modelli neoliberisti e patriarcali; e dare un senso a quello che sta succedendo, abbracciandone la complessità irriducibile e immaginando sistemi e modi di vita alternativi.
2-Combattere attivamente le fake news, rispondendo con una presentazione rigorosa dei fatti perchè, aggiungo io, siamo tutti liberi di esprimere le nostre opinioni ma dobbiamo poi prenderci la responsabilità e affrontarne le conseguenze (anche quando queste risultano in being cancelled).
3-Usare una piattaforma pubblica comporta responsabilità e artisti e intellettuali dovrebbero chiedersi con quale intento producono e condividono contenuti.
Come scrive Heiser: Rather than filling the void with empty rhetoric, at the very least what’s needed are reflections on what it means to live in that void.
Profilo
Carrie Mae Weems
Una lampada triangolare con il suo cono di luce, un tavolo di legno e la vita che prende forma in questo spazio: scene di intimità e quotidianità dominano la serie The Kitchen Table di Carrie Mae Weems, una delle più celebrate fotografe Afro-americane contemporanee.
Fin dagli anni Ottanta, il suo lavoro indaga la realtà di esistere come donna nera negli Stati Uniti, rappresentando in modo spesso inaspettato l’ingiustizia e la violenza sistematiche di cui questi soggetti fanno esperienza nel corso di tutta la loro vita. Altre tematiche importanti nel lavoro di Weems: Sessismo, aspettative sociali di genere e ruolo codificate ed eteronormative, il ruolo della tradizione nei confronti del ruolo delle donne (famiglia, monogamia, relazioni tra uomini e donne, tra donne e tra donne e bambini)
Carrie Mae Weems nasce a Portland,Oregon, nel 1953 e fin da bambina si interessa al mondo della performance, studiando danza e a prendendo parte al teatro di strada. All'età di 16 anni diventa madre e si trasferisce poco dopo a San Francisco per entrare nella compagnia della coreografa postmoderna Anna Halprin. Si iscrive al California Institute of the Arts di Valencia, per studiare fotografia e poi proseguire con un MFA presso l'Università della California, San Diego. Appena ventenne, Weems prende parte al movimento operaio come organizzatrice sindacale. Sono anni politicamente densi, che portano con sé ancora le istanze e l’energia del movimento per i diritti civili.
La sua prima serie fotografica è "Family Pictures and Stories", iniziata nel 1978 e completata nel 1983. Si tratta di una pratica documentaria dall’esecuzione poetica, che indaga l’esperienza individuale dell’artista nel suo incontrarsi con l’esperienza collettiva delle donne Nere attraverso la costruzione di immagini, in cui Weems stessa è spesso protagonista. La serie prende ispirazione dal lavoro dei fotografi attivi ad Harlem, New York, nella prima metà del Novecento e nel contesto della Harlem Renaissance. Questi artisti documentavano la comunità Nera e i suoi partecipanti come soggetti attivi, con la propria cultura, tradizioni e legami familiari in un’epoca segnata dalla segregazione razziale e dalla disumanizzazione di queste persone. Le immagini di Weems si inseriscono nel solco tracciato dai fotografi della Harlem Renaissance riprendendo il contesto intimo e familiare, ma riflettono sulle narrative e i significati che la fotografia, con la sua presunzione di oggettività, ci può invece raccontare.
Nel 1987, Weems si autoritrae in Portrait of a Woman Who Has Fallen From Grace: seduta su un letto, indossa un abito bianco e tiene una sigaretta in mano. In un semplice ritratto l’artista mette in discussione diversi canoni della rappresentazione femminile: l’abito bianco, etereo, segno di purezza, che tornerà più avanti nei suoi lavori; il letto, su cui è seduta con una posa più naturale che aggraziata. Weems prende tutto lo spazio che può e che vuole prendere, a gambe aperte, in un confronto diretto con l’osservatore, sottraendosi e anzi sfidando in maniera diretta lo “sguardo maschile”. E mentre più avanti il suo corpo verrà utilizzato come simbolo dell’esperienza di tante donne, perdendo sempre di più la sua connotazione soggettiva, qui l’artista si mette in dialogo con una grande eredità di rappresentazioni di corpi femminili in prima persona.
// Carrie Mae Weems, Portrait of a Woman Who Has Fallen From Grace, 1987. Via: sophia.smith.edu
Tra il 1989 e il 1990 Weems realizza la serie Colored People, una griglia di ritratti di giovani ragazze e ragazzi neri su cui l’artista pone un filtro colorato: la formalizzazione parodistica dell’espressione di colore, costrutto semplicistico che dall’inizio del XIX secolo comincia ad essere utilizzato per descrivere le persone non-caucasiche con l’obiettivo di cancellare solo sul piano formale la dicotomia bianco o nero. L’utilizzo della griglia e la composizione non gerarchica dei ritratti si scontra con il dinamismo e le relazioni cromatiche che guidano lo sguardo all’interno dell’opera. Una presunta neutralità e standardizzazione che si confronta con i rapporti e le implicazioni insite nel colore.
La serie riflette sulla vastità della gamma cromatica che contraddistingue la natura e gli individui, criticando la gerarchia che invece persiste. A ciascun gruppo di immagini l’artista collega un’etichetta come Blue Black Boy, Magenta Colored Girl e Golden Yella Girl. La serie nasce dalle esperienze di Weems, come raccontato dalla stessa artista:
“When I was a kid, I was called ‘red bone,’ so that idea of being a red girl as opposed to a caramel color girl or a chocolate color girl, I thought was really sort of fabulous, in a way of really being very specific about what someone looked like, what their color reflected.” La scelta di ritrarre soggetti adolescenti deriva dalla volontà di Weems di fotografare delle persone in una fase della loro vita in cui stanno formando la propria identità e persona: “Issues of race really begin to affect you, at the point of an innocence beginning to be disrupted.” // Weems, audio guide, Albright-Knox Art Gallery.
Sempre nel 1989, Weems inizia a lavorare a The Kitchen Table Series, dedicando una parte di ogni singolo giorno a fotografarsi al tavolo della sua cucina. Dopo aver ritratto diverse persone, l’artista entra di nuovo nell’inquadratura - come accaduto già in Family Pictures e Portrait - ma perdendo la propria individualità per diventare strumento di un racconto più ampio. Nonostante metta a tacere il proprio ruolo e posizione, Weems resta un’osservatrice onnisciente. Nella seria l'artista esplora la complessa realtà della vita della donna Nera, performata all’interno dello spazio domestico, attraverso fotografie accuratamente composte. Dinamiche sociali e conflitti prendono vita nello spazio chiuso della cucina, attorno al tavolo, raccontando la vita quotidiana di Weems e delle persone che la popolano e che entrano sporadicamente nell’inquadratura. “Can we use this space, this common space known around the world, to shine a light on what happens in a family, how it stays together and how it falls apart?” si chiede Weems in un’intervista sul New York Times.
// Carrie Mae Weems, The Kitchen Table Series, 1990. Via: Carrie Mae Weems
Weems utilizza diverse strategie per raccontare la storica disumanizzazione delle persone Nere, utilizzando fotografia e testo, in un gioco di interconnessione tra il documentario, la ritrattistica e il poetico. Nella serie From Here I Saw What Happened and I Cried, l’artista riprende l’uso di filtri colorati sulle fotografie - una tecnica già utilizzata in Colored People, di cui l’opera rappresenta il compimento. Abbinando immagine e testo,Weems ci mostra la violenza delle parole e l’attribuzione di un nome e di una definizione come atto di conquista dell’individuo. La stessa violenza che può essere agita dalla fotografia, una tecnica di rappresentazione che cattura il reale per fissarlo su carta e relegarlo all’immobilità. E che contro i Neri si è espressa in modo manifesto tramite le prime fotografie scattate loro durante le spedizione europee in diverse regioni dell’Africa, intrecciate a testi pseudo scientifici profondamente razzisti e sessisti. In questo lavoro il testo viene utilizzato dall’artista per restituire dignità alle persone che storicamente sono state private della propria voce e umanità.
Il rapporto tra artista, corpo e rappresentazione è centrale nella pratica di Carrie Mae Weems e negli anni 2000 vediamo un’evoluzione importante in questo senso nella misura in cui il corpo comincia ad essere utilizzato come strumento di misura e di analisi del mondo circostante:
“Much of my current work centers on power and architecture. For instance, I find myself traveling in Seville, Rome, and Berlin. It’s been implied that I have no place in Europe. I find the idea that I’m “out of place” shocking. There’s a dynamic relationship between these places: the power of the state, the emotional manipulation of citizens through architectural means, the trauma of the war, genocide, the erasure of Jews, the slave coast, and the slave cabins.”
In diverse serie fotografiche - come The Louisiana Project (2003) e Constructing History (2008) - l’artista inserisce il suo corpo all’interno di una serie di contesti architettonici, il corpo come misura dello spazio ed elemento strutturale. Si tratta di immagini costruite in cui il corpo della fotografa diventa parte del set, quasi come quello di una performer. In queste serie esteticamente delicate e anche poetiche, Weems reclama spazio all’interno di un luogo, una narrativa o un evento storico: occupandolo, letteralmente, con il suo corpo. Realismo e surrealismo si intrecciano e completano in queste immagini
// Carrie Mae Weems, The Louisiana Project, 2003. Via: Carrie Mae Weems
In The Louisiana Project, Weems si muove attraverso una dimora coloniale, luogo storicamente connotato dal contesto violento della schiavitù dei Neri. la fotografa indossa un abito bianco che si rispecchia nel colore bianco dell’architettura e degli interni della villa, si muove con grazia all’interno delle sale facendo del suo corpo, dello spazio che esso occupa, il punto focale e il centro dell’immagine. A piedi nudi, Weems danza con grazia nelle sale, che attraversa per poi uscire verso il giardino e i campi della proprietà. In quanto donna Nera, la sua presenza nelle immagini è tanto reale quanto metaforica, un punto di rottura che ci fa riflettere sul modo in cui scegliamo, rappresentiamo e raccontiamo i protagonisti della storia. Il modo in cui l’architettura si relaziona al corpo umano e al soggetto che questo corpo incarna non è neutro, e la presenza di alcuni monumenti o edifici con un peculiare significato storico rappresentano un silenziosa violenza nei confronti di un gruppo di individui.
// Carrie Mae Weems, Constructing History, The Fall of Bhutto, 2008. Via: Carrie Mae Weems
In Constructing History: A Requiem To Mark The Moment, Weems ricostruisce e re-interpreta momenti chiave nel movimento per i diritti civili americano, tra cui ad esempio gli omicidi di John F. Kennedy, Martin Luther King, Jr. e Malcolm X. Con l’aiuto di student di arte nell’area metropolitana di Atlanta, Weems mette in piedi un set in cui la storia ci viene letteralmente mostrata come una costruzione, una performance, che possiamo avvicinare, rivivere e raccontare a modo nostro tramite i nostri corpi. L’inclusione del set, con le macchine fotografiche, gli oggetti di scena e via dicendo, è l’elemento che rompe l’illusione, la quarta parete della produzione teatrale alla pari di quella storica. L’idea che chiunque possa diventare protagonista della storia e contribuire a interpretarla è un forte presupposto della pratica di Weems. La storia non è composta da certezze o postulati, ma è un processo di costante ricerca, aggiornamento e reinterpretazione, spesso alla luce di eventi o nuovi modi di pensare del presente. Nella pratica di Weems, la storia non è una disciplina statica o un racconto neutro, ma diventa relazionale, direttamente legata a ciascuno di noi attraverso fili che ci uniscono e ci collegano tanto al passato quanto al presente.
Negli ultimi anni, oltre a proseguire il suo lavoro fotografico, Weems si è concentrata sempre di più sul tema della rappresentazione del corpo nero nei media, in particolare lavorando sulla rappresentazione delle persone famose, e su progetti di arte pubblica, tra cui Social Studies 101.
Social Studies 101 è un’organizzazione co-fondata dall’artista nel 2002 che offre ai ragazzi del luogo un servizio di mentorship nelle professioni creative. Nel 2011, dopo l’uccisione di un bambino nero di 20 mesi di nome Rashaad durante uno scontro tra due bande, il gruppo decide di lanciare Activate, un programma di affissioni pubbliche e distribuzione di oggetti come fiammiferi con slogan come "Un uomo non diventa un uomo uccidendo un altro uomo" e "Contrariamente alla credenza popolare, la tua vita è importante."
// Carrie Mae Weems & Social Studies 101, Operation: Activate, 2011. Via: Carrie Mae Weems
Nei suoi lavori, Weems utilizza la fotografia come strumento per mostrare il modo in cui le immagini possano essere costruite per raccontare storie dai confini ben precisi ma dai contenuti non scontati e inesplorati. Weems racconta una realtà concreta e spesso dura, ma producendo narrazioni nuove, in cui il valore estetico e formale acquista un valore politico, riappropriandosi della rappresentazione come mezzo di denuncia ed emancipazione. A tratti dissacrante, la sua pratica rimane sempre sospesa tra il poetico e l’ironico.
Ciliegie
i nostri pick culturali
🍒 Podcast 🍒
The Guardian Today In Focus - Alistair Campbell and family on living with his depression, 11/09/2020
Polvere, podcast dell’Huffpost realizzato da Chiara Lalli e Cecilia Sala sull’omicidio di Marta Russo
🍒 Letture 🍒
un libro: Extrastatecraft: the Power of Infrastructure Space di Keller Easterling, un libro che descrive la nuova urbanistica iper-commerciale delle metropoli contemporanee ed il potere invisibile delle infrastrutture nella regolamentazione di scambi economici, politici e sociali
un romanzo: L’illuminazione del susino selvatico di Shokoofeh Azar, edizioni e/o ci trasporta in un Iran fantastico e crudele, dove il magico si intreccia alla vita di tutti i giorni e alla violenza del regime post rivoluzione islamica.
un articolo: dal 2017, un saggio breve (in inglese) di Andrea Bagnato su pandemie, germi, architettura e colonialismo
🍒 Musica 🍒
Angolino di Valentina Cesarini ~ let me down the easy way
🍒 Film 🍒
Agnes Varda, Black Panthers (1968)
🍒 L’Internet 🍒
Museum of Modern Shopping di Laura Yuile
Twitter thread su Claude Cahun ~ oldie but goldie!
Un altro bellissimo Twitter thread sull’Anasuromai
Video analisi di tiffanyferg Analyzing the “Karen” meme
Bonus ~ a proposito di night routine, una coccola (:
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Noi siamo arrivate alla fine di questo primo numero di Interstizi. Un google doc aperto tanto tempo fa che ha finalmente preso una forma di cui siamo molto felici ✨
Grazie per essere arrivate fin qui, per averci letto, per averci dedicato del tempo.
Interstizi è in fase di sperimentazione totale quindi se avete suggerimenti, feedback o volete semplicemente condividere con noi cosa vi passa per la testa potete rispondere a questa mail, seguirci su Instagram o scriverci a interstizinewsletter@gmail.com - se invece sei qui per sbaglio ma vuoi saperne di più puoi iscriverti qui
Interstizi è un progetto a cura di Fabiola Fiocco e Giulia Pistone.
A presto! 🌿