Benvenutə al decimo numero di Interstizi,
una newsletter occasionale che nasce dal bisogno di mettersi insieme, di condividere riflessioni e pensieri fuori da uno spazio predefinito. Una piattaforma informale di confronto e di ricerca su arte, cultura pop e attualità che speriamo possa aprirsi nel tempo a tanti punti di vista e modalità espressive diverse. Uno spazio fisico e mentale per germogliare, condividere quello che ci sta a cuore, raccontare e raccontarsi, trovare la propria voce ma anche lanciarsi in qualche sano rant.
In questo numero siamo molto felici di avere nuovamente un’ospite qui ad Interstizi. In un Fotoromanzo
un po’ fuori misura, Jessica Sartiani condivide con noi alcuni estratti della sua ricerca su caffè, colonialismo e iconografia razzista. Parliamo poi di narrazioni, verità, post-verità e complotti e vi presentiamo un importantissimo lavoro di Alessandra Ferrini sull’eredità del colonialismo italiano e la costruzione della memoria. Come sempre, si finisce con una scorpacciata di ciliegie (siamo anche quasi in stagione) e un invito ad una festa speciale.
Buona lettura! 🌿
Fabiola & Giulia
Prima di iniziare, una piccola réclame!
Abbiamo lanciato un nuovo progetto, collettivo goo, assieme a Victoria Chuminok e Beatrice Dell’Elce, con cui presenteremo It’s my party, mostra personale di Agnese Spolverini, in occasione di Artefiera e Art City a Bologna, negli spazi di Senape Vivaio Urbano (clicca qui per l’indirizzo).
La mostra inaugura venerdì 13 maggio alle 18.30 - potrete anche conoscere meglio Agnese, che racconterà dei suoi lavori con una visita in mostra!
Sabato 14 potete visitare la mostra dalle 10 alle 13 e, in occasione della Art City White Night, resteremo aperte dalle 16 alle 22. Alle 16.30 è in programma una visita guidata con Agnese e dalle 19.30 alle 22 un aperitivo con dj set a cura di Bech.
Domenica 15 ci trovate dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 19.30
See you in Bologna!
Fotoromanzo
A cura di Jessica Sartiani
TW: rappresentazioni esplicitamente razziste
Il caffè attraverso il colonialismo e l'iconografia razzista
Il caffè, una bevanda immancabile nelle case degli italiani, un aroma riconoscibile tra mille ma sconosciuto e (ahimè) maltrattato.
Quando ho iniziato a bere caffè, ho amato subito la sua ritualità e l’atmosfera che si creava attorno alla tazzina: c’è chi lo attribuisce ad una scusa per vedere un amico, chi come una piccola pausa, chi passeggia per il proprio quartiere verso la caffetteria - o meglio il bar - per aggiornarsi sulle notizie e gli avvenimenti mattutini. Di fronte ad una tazza di caffè sono state organizzate rivoluzioni, sono state fatte promesse d’amore e di affari. La tazza di caffè ci riporta al calore famigliare, alle mattine lente e quelle affrettate, a quel risveglio dei sensi, primo su tutti l’olfatto, che ci avverte che un nuovo giorno sta per iniziare. Così amato e così decantato dalla cultura nazionalpopolare ma allo stesso tempo poco conosciuto e svalutato. Uno dei prodotti più consumati nel nostro paese, sembrerebbe apparire per magia sugli scaffali del supermercato, facendo scomparire tutta la filiera che ha lavorato per far arrivare il caffè sul territorio. Non c’è da sorprendersi, perché un prodotto come il caffè, a differenza dell’olio e del vino, non viene prodotto a casa nostra e per questo la percezione è totalmente differente.
La maggioranza delle pubblicità e le grandi industrie del caffè non hanno mai focalizzato il loro linguaggio commerciale su aspetti come il paese di origine, l’anno di raccolta o il metodo di lavorazione. Si sente spesso parlare di arabica o robusta, comparato al vino è come se dicessimo vino bianco o rosso. Eppure le pubblicità sul caffè sono qualcosa che fanno parte della nostra cultura. Mentre all’epoca del carosello Carabello e Carmencita di caffè Paulista entravano nelle case italiane, oggi abbiamo George Clooney e Brad Pitt.
Il caffè nella storia italiana ha lasciato dei segni importanti. Oltre alla tradizione come torrefattori, o ai caffè letterari, alla fine dell’Ottocento molti italiani emigrarono verso il Brasile alla ricerca di uno stile di vita migliore rispetto a quello che caratterizzava le campagne italiane.
La propaganda del tempo prometteva condizioni lavorative buone ma in realtà la vita nelle piantagioni di caffè era estenuante e la paga così bassa che anche i bambini dei migranti italiani dovevano lavorare nei campi in modo da aumentare il quantitativo di raccolto e ricevere una paga maggiore.
Durante il periodo fascista e la conquista dell’Africa Orientale, l’agricoltura italiana cercò di imporsi sul suolo etiope, terra di origine del caffè, importando le tecniche agricole utilizzate in Brasile, ma il suolo e le condizioni climatiche erano totalmente differenti dalla terra brasiliana e il tentativo di produrre delle piante di caffè italiane svanì nel breve periodo di occupazione.
Di quel periodo ci portiamo dietro un uso iconografico tuttora associato al caffè e che trova radici nella propaganda razzista e fascista del ventennio.
La propaganda disegnava la popolazione maschile africana con figure infantili, il che aveva come obiettivo la totale cancellazione della virilità dell’uomo nero e la giustificazione dell’occupazione, mostrata come un atto benevolo che vedeva gli italiani come esportatori di istruzioni, pulizia e civiltà.
Questa iconografia è oggi ancora presente in molti loghi di torrefazioni, che inconsciamente, per semplice tradizione o per goliardia (giustificazione in voga in Italia quando ci troviamo di fronte ad episodi di razzismo sistematico) continua a mandare un messaggio contorto del tipo “ehi, piccolo popolo che lavora il caffè, sono il tuo benefattore, sorridi nel tuo stato di sfruttamento “.
Le donne africane venivano sessualizzate e rappresentate in costumi distanti dalla loro cultura; nell’immaginario colonialista la donna è sempre a seno scoperto, un usanza atipica nella cultura Etiope ed Eritrea. Questo per accentuare l’idea di conquista: oltre alle terre, l’impero conquistava anche le donne ed era dunque lecita la loro mercificazione.
Nonostante le leggi razziali fasciste che vietavano rapporti con donne africane, il madamato era diffuso e gli stupri non erano atti vergognosi, anzi, aiutavano ad accentuare la virilità e la forza dei camerati.
Purtroppo siamo testimoni di una similitudine di questo immaginario nelle pubblicità del caffè, ancora si vede la “seminatrice” di caffè a seno scoperto in una famosa torrefazione della capitale e anche la donna caraibica ammiccante è un'immagine familiare nella cultura pop della nostra epoca.
Spesso ho riflettuto su come, rappresentazioni di questo tipo, possono influenzare la percezione di un prodotto. Nella mia esperienza come barista mi è capitato spesso di sentire commenti denigratori verso i paesi di produzione dopo aver spiegato l’origine di un determinato caffè, soprattutto per quel che riguarda il prezzo che dovrebbe avere la tazzina per garantire una giusta paga al produttore:
“Si ma in quei paesi vivi bene con un paio di pantaloncini e ciabatte.”
“Il loro stile di vita è differente dal nostro per cui…cosa se ne fanno dei soldi?”
“Il caffè è caffè, non dovrebbe essere pagato più di un euro.”
Commenti che ci fanno capire quanto siamo lontani da queste realtà e di come realmente percepiamo un Paese del “terzo mondo”.
Esistono realmente nell’immaginario collettivo popolazioni di serie A e B? Forse inconsciamente, viviamo la nostra posizione di privilegio come qualcosa che ci meritiamo e non semplicemente un gioco del destino per il quale siamo nati in un paese, piuttosto che in un altro?
Dovremmo rileggere la storia con occhi differenti, non da semplici studiosi ma da esseri umani guidati dall’empatia e dalla volontà di conoscere contesti e culture diverse, visto che senza di loro non saremmo in grado di sorseggiare un buon caffè ogni singola mattina delle nostre vite.
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Jessica Sartiani, BARISTA HUSTLE Trainer & Professional Barista. Il suo viaggio nel mondo degli Specialty Coffee prende il volo nel 2014, diventando una delle una delle colonne portanti del team della prima caffetteria Speciality in Italia. Fin dall’inizio si rende subito conto di quanto la formazione fosse importante per il suo lavoro ma anche far arrivare il giusto messaggio al cliente finale. Guida le caffetterie e le torrefazioni nell’apertura o nell’aggiornamento della propria offerta attraverso la formazione del personale, condividendo la sua esperienza diretta all’approccio del cliente italiano al nuovo mondo dei caffè Specialty. Dal 2020 collabora insieme a Black History Month Florence nel contesto del black archive alliance un progetto di ricerca e formazione che mira a mettere in luce una selezione di documenti che riflettono le realtà e le storie delle popolazioni africane, la loro diaspora e la loro rappresentazione attraverso una serie di archivi e collezioni pubbliche e private. Le sue ricerche si concentrano sul rapporto tra caffè e storia coloniale, cercando di evidenziare come questo prodotto abbia influito sulla storia dal momento in cui si espande nel mondo, dal suo continente di origine, l’Africa. Seguila qui e qui.
Interludio
Nient’altro che la verità.
Nel 2017 a Londra ho visitato la grande retrospettiva dedicata al lavoro del fotografo Wolfgang Tillmans alla Tate Modern. Come poche altre mostre, questa mi ha lasciato una sensazione potente dentro, mi ha fatto sentire stimolata, riconfortata, motivata e pronta a vedere le cose in modo nuovo. Uno dei lavori esposti era truth study centre, progetto iniziato dall’artista nel 2005 e ancora in corso, esposto come installazione ma presentato anche in forma editoriale. Sopra una serie di asettici tavoli di legno chiaro, semplici, leggeri e squadrati, l’artista ha raccolto fotografie, ritagli di giornale, piccoli oggetti e disegni per mettere in luce il modo in cui accadimenti e notizie vengono manipolate a seconda dell'appartenenza politica di chi li riporta. Un lavoro brillante anche perché iniziato in tempi non sospetti: la disinformazione, che ha raggiunto oggi livelli talmenti alti da parlare di era della post-verità, era nel 2005 qualcosa di meno polarizzato e polarizzante. Dalla propaganda e la manipolazione fotografica siamo passatз alle fake news, le notizie false che viaggiano velocissime su Internet, e ai deep fake, video e fotografie manipolate così accuratamente che è praticamente impossibile riconoscerli come falsi.
Ci troviamo oggi in un momento quasi paradossale: se, da un lato, abbiamo moltissimi strumenti per scoprire e diffondere storie che in passato non sarebbero state raccontate (sulla parità di genere, sulle discriminazioni e violenze razziali e via dicendo), dall’altro un’accettazione collettiva del fatto che quanto ci viene raccontato non rappresenta tutta la verità ha portato alla proliferazione di teorie del complotto e visioni alternative del mondo che hanno prodotto vere e proprie bolle di verità assoluta. Di fronte alla portata di questi fenomeni sembra davvero riduttivo parlare di semplice ‘disinformazione’ o ‘opinione diversa’. Come rapportarci, quindi, a narrazioni del mondo tanto forti e radicate quanto discordanti e, in alcuni casi, alienanti?
Premetto che non ho una direzione precisa, o una soluzione, ma che mi sono messa a scrivere con l’intento di riflettere e ponderare. Sono domande che per me rimangono aperte, tanto su un piano personale quanto su uno politico. Ci sono tantissimi modi in cui, singolarmente e come società, interpretiamo il senso del mondo, alcuni così diversi da sembrarci quasi impossibile che qualcuno vi si possa riconoscere. Se sto per mettere “sullo stesso piano” eventi estremamente diversi tra di loro, sia nelle ripercussioni per il benessere futuro delle persone su questo pianeta che per l’immediato valore positivo o negativo dei singoli fatti, è per riflettere su come, in tutti gli esempi da me descritti, si tratti di visioni del mondo che non combaciano pienamente con la narrazione mainstream e che in modi molto diversi cercano di irrompere all’attenzione dell’opinione pubblica. Se non esiste un assoluto, non esiste neppure un ‘neutro’, uno zero da cui partire, eppure permane il concetto di ‘opinione pubblica’ come consenso collettivo, una maggioranza di persone che crede a quanto viene loro raccontato e che si orienta su parametri generalmente condivisi. È interessante che l’idea di sfera pubblica nasca in un preciso momento storico e del pensiero, l’Illuminismo, come quell’insieme di persone che, appunto, ‘sono illuminate’: sono istruite e pertanto possono comprendere la verità. Ma da dove arriva la luce? Chi l’accende e chi decide dove dirigerla?
Mi sono spesso trovata a riflettere sulla struttura delle narrazioni, architetture complesse che tengono in piedi la nostra realtà e visione del mondo, e il modo in cui le singole narrazioni si intersecano con quelle partigiane oppure collettive. Partendo dal mio percorso personale, ricordo bene la sensazione travolgente che ho provato quando, attorno ai 18 o 19 anni, mi sono per la prima volta approcciata a testi femministi: per tutto questo tempo mi hanno presa in giro. Come ha scritto anche Elena Ferrante nel suo romanzo Storia della bambina perduta: “Io mi sono sentita inventata dai maschi, colonizzata dalla loro immaginazione”. Tutta la storia, la filosofia e la letteratura che con tanto interesse avevo studiato, che mi avevano venduto come ‘neutrali’, ‘assolute’, ‘parte del genere umano’, tutte bugie. Si trattava di punti di vista limitati, maschili, che mi riguardavano fino ad un certo punto e accanto ai quali c’erano altrettanti punti di vista validi e storie non raccontate che invece mi riguardavano molto di più.
Quando poi ho iniziato a studiare alla Goldsmiths è tutto inesorabilmente crollato come un castello di carta con la mia (ahimè tardiva) scoperta del post-colonialismo, tutti questi punti di vista che da relativi ma comunque ‘universali’ si sono per me trasformati in inesorabilmente bianchi.
Un momento simile a livello collettivo lo abbiamo vissuto nel 2020, quando il movimento Black Lives Matter è diventato protagonista delle news globali a seguito dell’assassinio di George Floyd, avvenuto il 25 maggio 2020 per mano di un ufficiale di polizia della città di Minneapolis. A questo evento di violenza razzista, un caso non isolato e che si inserisce in un più ampio problema di violenza strutturale da parte dello Stato, sono seguite proteste e manifestazioni in moltissime città americane ed europee, molte delle quali sono culminate con l’imbrattamento o l’abbattimento di statue di colonizzatori che ancora oggi sono presenti nei nostri spazi pubblici. A Bruxelles i manifestanti hanno assaltato la statua di re Leopoldo II, responsabile del genocidio in Congo che uccise almeno 10 milioni di persone, tra atrocità orripilanti; una simile statua è stata direttamente rimossa dalle autorità ad Anversa. Un altro episodio che ha avuto ampia risonanza è avvenuto a Bristol, dove un gruppo di manifestanti ha abbattuto e gettato nel fiume la statua del mercante di schiavi Edward Colston. In Italia, oltre alle manifestazioni nelle principali città del Paese, è stata marchiata di vernice rossa la statua di Indro Montanelli, all’interno degli omonimi giardini di Milano, per ricordare il suo passato di soldato fascista, responsabile di diversi crimini, di matrice razziale, sessista e colonialista, in Etiopia, tra cui acquistare come ‘sposa’ una bambina del posto.
Gli interventi contro le statue sono state oggetto di un forte dibattito sia in Italia che all’estero, poiché visti da alcuni come atti vandalici contro il patrimonio storico. Molti hanno argomentato che le statue dovrebbero restare in piedi, o al massimo essere trasferite tra le mura sicure di qualche museo, perché, oltre ad essere delle opere d’arte, ci permettono di ricordare quanto accaduto in passato. ‘Non vedo quale sia il problema’ è stato però un argomento molto più diffuso, soprattutto nei confronti di statue come quella di Cristoforo Colombo, oppure di Winston Churchill (anche su Montanelli, a dirla tutta, il consenso non è stato unanime e infatti la statua è stata ripulita e sta ancora lì).
I monumenti sono un simbolo fisico di una narrazione del mondo che stabilisce chi debba essere celebrato e in base a che cosa. In questo senso nella letteratura accademica sul tema si parla di contested heritage, patrimonio contestato invece che condiviso: in esso collimano diverse storie e narrazioni, egemoniche e non, portatrici di soprusi, traumi e violenze, rappresentazioni ambivalenti che rifiutano una lettura univoca. Riprendendo come esempio i due casi che ho appena nominato, il Colombo che ci viene raccontato come intrepido avventuriero e neutro scopritore ha dato inizio ad un genocidio senza precedenti nei territori americani; mentre Churchill, oppositore del nazifascimo, mise in atto nel 1943 una serie di politiche che provocarono una violenta carestia nella regione del Bengala, causando la morte di 3 milioni di persone. Tenendo conto di questa complessità mi trovo in disaccordo con chi vuole conservare a tutti i costi, soprattutto nello spazio pubblico, questi monumenti che celebrano non tanto singole azioni, ma individui fautori di un’intera visione del mondo che ha reso possibili determinate azioni.
In questo senso, il patrimonio non viene inteso come qualcosa di immobile nel tempo, perché le nostre chiavi di lettura e la nostra consapevolezza collettiva si evolvono, nuovi soggetti politici riescono a reclamare la loro voce e il loro spazio nella sfera pubblica (seppur con grande fatica), e lo stesso dovremmo fare con chi mettiamo su un piedistallo ed esponiamo a modello nello spazio pubblico.
È particolarmente interessante in questo contesto il lavoro di Decolonize this place, un movimento fondato nel 2016 a New York che organizza azioni, eventi, assemblee e pubblicazioni per mostrare le implicazioni del colonialismo all’interno di diversi spazi culturali della città, come ad esempio il MoMA o l’American Museum of Natural History.
Il lavoro di movimenti come Decolonize this place (o quello delle più famose Guerrilla Girls riguardo la rappresentazione femminile e la parità di genere) ci mostra l’irrompere di altre visioni del mondo in quella che per secoli è sembrata una narrativa granitica delle cose, tale da essere considerata come neutra e automaticamente più vera.
L’istruzione che riceviamo crescendo ci porta a credere che debba esserci un vero e un falso, lasciando poco spazio per valutare la compresenza di altre storie e punti di vista da prendere in considerazione. Nel pensiero occidentale c’è sicuramente una forte attrazione verso un’idea di verità assoluta, dalla filosofia greca in poi: l’idea socratica che conoscendo ‘il bene’ non si possa poi agire il male; il mondo delle idee di Platone; l’Illuminismo; l’Idealismo hegeliano con la sua fede nella ragione assoluta. Un catalogo sicuramente incompleto ma alla base di un modo di intendere il mondo in un certo senso rigido e dogmatico: c’è un assoluto, questo assoluto corrisponde con la verità, che rappresenta il bene per l’umanità e che di fatto è la struttura cardine da cui si dipana la narrazione del mondo. Il mondo è così, punto. Nel corso dei secoli, chiaramente, ci sono state infinite critiche a questa visione ma la mia percezione è che si sia comunque infiltrata molto sottilmente nel modo di vedere le cose di moltз di noi e che comunque non sia poi così semplice liberarsene. In fondo, se non ci fosse una ‘verità vera’, non ci potrebbe essere una narrazione del mondo ‘falsa’, che ci appare palesemente ingiusta o distorta (per esempio, proprio quella narrazione conservatrice che è a favore delle libertà individuali ma contro il riconoscimento dei diritti delle persone LGBTQIA+, della parità di tutti i generi, del riconoscimento delle conseguenze effettive del colonialismo, ecc). Ma se non esiste una verità assoluta, dove tracciare il confine tra verità relativa, narrazione alternativa e teoria del complotto?
‘Narrazione alternativa’ può infatti significare molte cose, come abbiamo visto in questi ultimi anni. Per esempio, la destra estremista statunitense è diventata nota proprio come Alt-right, destra alternativa, creandosi nuove storie e visioni del mondo che sono presto diventate fagocizzanti. Questi ambienti sono stati fin dall’inizio caratterizzati da teorie del complotto molto difficili da sradicare. Nel 2016, durante la sfida elettorale tra Hillary Clinton e Donald Trump, questi movimenti estremisti sono venuti alla ribalta con la teoria del complotto ‘Pizzagate’, denunciando la presenza, nelle email di Clinton hackerate da WikiLeaks, di messaggi criptati attraverso cui diversi esponenti di punta del Democratic Party sarebbero stati coinvolti in un traffico di essere umani e di abusi sessuali sui minori di portata globale. Il centro in cui questi abusi su minori sarebbero stati commessi era individuato come una pizzeria di Washington DC, chiamata Comet Ping Pong. La teoria prese piede su Reddit, soprattutto nelle conversazioni legate ai sostenitori di Donald Trump ed è considerata il principale predecessore del movimento di estrema destra QAnon, che riprende infatti la stessa storia di un racket globale di abusi sessuali su minori gestito dai vertici democratici e hollywoodiani (anche se non più basato attorno ad una pizzeria). Un’altra convinzione di molti appartenenti a QAnon è che le stragi che periodicamente si verificano nelle scuole superiori americane, riaprendo il dibattito su un maggior controllo di vendita e possesso delle armi, siano episodi completamente fabbricati dal governo. Questi movimenti di estrema destra, collegati anche al suprematismo bianco, si sono consolidati attorno a Donald Trump, che non ha mai smentito nessuna di queste teorie del complotto, ma anzi le ha alimentate direttamente, sostenendo senza prove che le elezioni americane del 2020 fossero state manipolate per farlo perdere. Uno degli episodi più violenti e significativi è stato l’assalto al Congresso americano del 6 gennaio 2021 da parte di appartenenti al QAnon e simili gruppi. Nel frattempo, la pandemia di Covid-19 e l’imposizione di lockdown e obblighi vaccinali hanno ulteriormente compattato questi gruppi, rendendo sempre più granitica la loro visione del mondo. Sono numerose le testimonianze (qui un podcast e qui un articolo) dei familiari di persone che si sono improvvisamente ‘convertite’ a questi estremismi: il quotidiano inglese The Guardian li ha ribattezzati ‘orfani di QAnon’, per esprimere lo smarrimento di chi si trova improvvisamente rifiutato da parenti e amici perché non condivide la loro stessa visione del mondo. Tra le testimonianze raccolte dal Guardian mi ha particolarmente colpita quella di un giovane sopravvissuto ad una strage in una scuola superiore americana e che vive oggi con un terribile trauma, il cui padre accusa direttamente di essere parte di una cospirazione nazionale.
Queste storie mi sono tornate in mente di recente, ascoltando le testimonianze di moltз ucrainз con familiari in Russia (la stima è che ben 11 milioni di cittadini ucraini abbiano parenti in Russia), che hanno raccontato ai giornalisti di come i loro cari non credono loro quando raccontano delle bombe, degli assedi, dei crimini di guerra e degli ospedali bombardati. Pur ascoltando le esperienze dirette di familiari, a volte persino corredate da immagini su Telegram e altre piattaforme criptate, queste persone credono saldamente alla visione del mondo, alla verità assoluta costruita dal Cremlino: è tutta una messa in scena, oppure le parti sono rovesciate. Anche in questo caso, per quanto ci sembri totalmente incredibile che di fronte a orrori e crimini di guerra di tale portata e documentati in così tanti modi (fotografie, riprese e resoconti orali incrociati con immagini satellitari e prove forensiche), si possa credere ad un’altra narrazione, ci rendiamo conto di quanto sia importante mantenere una base condivisa su che cosa sia la verità, perché non tutte le visioni del mondo possono essere validate, pur volendosi staccare da una visione dogmatica del vero.
Davanti a questo tipo di radicalizzazione, perpetrata attraverso manipolazioni e schemi che agiscono sulla psiche dell’individuo, aggrappandosi spesso a fragilità, traumi o questioni preesistenti, l’argomentazione logica o le procedure di debunking (ovvero analisi che mirano a ‘smontare’ determinate notizie o storie) possono rivelarsi limitati se non inadeguate e controproducenti, spingendo le persone a chiudersi sempre più nella loro bolla. Come raccontato da Lorenzo Bianchi in Complotti! o nell’episodio sulle sette della docuserie Netflix In poche parole, le componenti emotive e identitarie sono infatti cruciali nell’analisi e comprensione di questi processi ed è stato dunque ipotizzato che una strada utile per disinnescare narrazioni tossiche o dannose è quella di contrapporre relazioni e affetti, lavorando sulla creazione di un ambiente più inclusivo e solidale. Sulla piattaforma social Reddit sono nate nel tempo diversi subreddit dove i parenti di persone ormai fagocitate da questi estremismi si confrontano, cercando supporto ma anche condividendo possibili soluzioni. È essenziale ripartire da una base condivisa, formata da storie, valori e legami. Ritrovo questa idea relazionale di verità nel lavoro di Wolfgang Tillmans che ho citato all’inizio, e anche quello del collettivo Forensic Architecture, che ricostruisce eventi comparando diversi punti di vista, racconti orali, registrazioni, prove fisiche nel paesaggio, immagini fotografiche e satellitari per ricostruire lo svolgimento di eventi tragici come una sparatoria dell’esercito israelino che ha causato l’assassinio di un ragazzino palestinese, oppure il nafraugio di una barca di migranti nel Mar Mediterraneo. Credo che questo approccio comparato, ragionato, che lentamente raccoglie le sue prove e le informazioni, unendo elementi razionali e supporto emotivo, possa forse essere un punto di partenza per salvare l’importanza della verità a discapito della verità assoluta.
A fuoco
Negotiating Amnesia è un essay film, (film-saggio) realizzato dall’artista, ricercatrice ed educatrice Alessandra Ferrini nel 2015. Partendo dallo studio dei materiali dell'Archivio Alinari, della collezione Pittana e della Biblioteca Nazionale di Firenze risalenti all'occupazione italiana dell'Africa Orientale e alla guerra d’Etiopia (1935-36), il progetto esplora l’eredità del colonialismo italiano e ‘le politiche di amnesia’ che ancora oggi lo caratterizzano. Il film intreccia immagini d’archivio, aneddoti e dati storici, utilizzando uno stile documentario classico, ad immagini manipolate e modalità di rappresentazione artistiche, che aggiungono effetti stranianti con l’obiettivo di ‘attivare’ i documenti e le immagini d’archivio e di riflettere sul modo in cui viene costruita e trasmessa la memoria. Articolato in quattro sezioni (Patrimonio vs Memoria; Fotografia vs Memoria; Monumenti vs Memoria; Educazione vs Memoria), questo processo produce a sua volta una contro-narrazione, volta a mettere in discussione categorie e cliché storici predominanti (come ad esempio lo stereotipo degli ‘italiani brava gente’).
Nel film vengono anche analizzati alcuni monumenti presenti sul territorio italiano che nel corso del tempo sono stati funzionali ad alterare la storia, banalizzando, o addirittura celebrando, eventi, personaggi e luoghi. Inoltre, in parallelo alla ricerca d’archivio, Ferrini ha analizzato diversi libri di testo adottati dalle scuole superiori italiane dal 1946 in poi e il linguaggio spiccatamente propagandistico o vittimistico, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, utilizzando con l’obiettivo di costruire una storia e una narrazioni ufficiali e, conseguentemente, decostruire la memoria ad essa collegata.
L’utilizzo della voce dell’artista è particolarmente interessante. Come scrive la stessa Ferrini: “una voce narrante soggettiva e self-reflexive (la mia voce), che traccia il mio confronto con l'archivio fotografico e con la storia del colonialismo italiano. Queste relazioni vengono performate pubblicamente al fine di coinvolgere lo spettatore nel mio processo di apprendimento e presa di coscienza su vicende storiche spesso trascurate o manipolate in narrative buoniste, che perpetuano un sistema di oppressione basato sul privilegio dell'uomo bianco.” Il processo di apprendimento diventa così individuale e collettivo, ponendo l’artista e lз spettatorз in un simile stato di autoriflessione, disapprendimento e co-produzione.
La natura fortemente didattica del progetto si evince anche dalla sua ramificazione in altri progetti paralleli. Sotto il nome di Notes on Historical Amnesia, l’artista ha trasposto il progetto di ricerca alla base del film in un’installazione, un progetto espositivo e in una serie di laboratori per studentз delle scuole superiori, con l’obiettivo di sviluppare non solo un diverso tipo di discorso attorno ai temi del fascismo, del colonialismo e della memoria, ma di rafforzare le competenze metodologiche ed analitiche. Un’attività realizzata non senza grandi difficoltà, legate alla reticenza a fare i conti con il proprio passato e la propria complicità e alla mancanza di consapevolezza e di elaborazione delle responsabilità storiche e collettive dellз italianз nel processo coloniale: “Queste vicende confermano come i docenti stessi non considerano il colonialismo italiano un importante capitolo della storia italiana e che scegliere di parlare di questi fatti storici sia di per sé un atto politico.”
In una relazione di continua tensione tra passato, presente e futuro, il lavoro di Ferrini si inserisce all’interno di quella che è stata definita la svolta storiografica dell’arte contemporanea. Un rapporto con il documento e l’archivio volto ad affrontare questioni sociali e politiche urgenti, lungamente soffocate o invisibilizzate, così da produrre una diversa consapevolezza ma anche nuovi strumenti di analisi, costruzione e lotta. In Negotiating Amnesia, Ferrini porta avanti un approccio intersezionale, partendo dal suo posizionamento politico ed identitario - come artista, ricercatrice, persona bianca e italiana - e inserendosi in prima persona nel processo di (dis-)apprendimento, di studio e decostruzione. La memoria e coscienza individuale diventano un espediente e un filtro attraverso cui discutere problemi e meccanismi strutturali, radicati e visibili nel presente; rapporti politici ed economici che derivano dal passato coloniale italiano e che acquisiscono un nuovo peso alla luce di esso, mettendo così in luce responsabilità storiche ma anche dinamiche di potere, presenti e future. La coralità che contraddistingue la sua pratica è segno evidente di un processo collettivo di analisi, della stratificazione di testimonianze, prospettive e posizionamenti, in cui l’artista si pone in ascolto e relazione.
Questo lavoro di decostruzione permanente, così come un approccio alla storia non come ricerca di un canone ma relazione dialettica di risignificazione, muove anche il progetto Unsettling Genealogies (2020 - in corso), attraverso cui l’artista intende realizzare una serie di ‘incursioni critiche’ nella storia delle istituzioni culturali italiane per portare alla luce le loro radici coloniali e fasciste, le modalità attraverso cui tali lasciti sono stati sistematicamente neutralizzati, pacificati o nascosti. La prima incursione è stata realizzata a giugno e ottobre 2020 in risposta all’annuncio riguardante il riallestimento dell’ex Museo Coloniale all’interno del Museo Italo Africano “Ilaria Alpi”, a sua volta parte del Museo delle Civiltà di Roma. Attivando l’analisi della storia dell’istituzione ospitante, del contesto in cui questa si trova (ovvero il quartiere EUR di Roma) così come del linguaggio e delle immagini utilizzati nel corso della conferenza stampa, nel sito internet e nei materiali comunicativi del progetto, l’artista mira a far emergere il significato ideologico insito in specifiche narrazioni e architetture e il modo in cui queste sostengono progetti economici-politici direttamente legati all’eredità coloniale e fascista nazionale.
Alessandra Ferrini è un'artista, ricercatrice ed educatrice. Dottoranda presso la University of the Arts London, con il progetto di ricerca Gheddafi in Rome: Disecting a Neocolonial Spectacle, dal 2016 è affiliata ad InterRGrace, il Gruppo Internazionale su Razza e Razzismo dell’Università di Padova. Lavorando attraverso un approccio decoloniale, nella sua pratica Ferrini unisce il medium del film e della fotografia, il lavoro di documentazione a quello di archivio, ragionando sulle pratiche storiografiche e archivistiche e sulla costruzione della memoria e delle narrazioni, sulla rappresentazione della storia. L’archivio dunque non solo come spazio fisico, ma anche come ‘sapere situato’, legato ad un preciso posizionamento socio-culturale ma anche dipendente da una sovrapposizione di esperienze, geografie ed eredità. In particolare, il suo lavoro si concentra sull’eredità del colonialismo e del fascismo nella storia e nella cultura italiana, nelle sue espressioni storiche e attuali. Il suo lavoro è stato presentato in mostre, proiezioni e conferenze internazionali e ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti. Attualmente, Ferrini porta avanti una collaborazione a lungo termine con Archive Books (Berlino e Milano) e con Black History Month Firenze ed è co-fondatrice e co-direttrice della piattaforma di ricerca Mnemoscape con Elisa Adami.
Ciliegie
i nostri pick culturali
🍒 Podcast 🍒
Ahali Podcast, una serie di conversazioni in cui Can Altay incontra pensatorз, artistз, curatorз e designer per discutere del futuro della produzione culturale.
Romantic Italia, podcast di Giulia Cavaliere (autrice anche dell’omonimo libro) che mescola hit italiane pop o di cantautorato con storia contemporanea del nostro Paese e modi di concepire e immaginare l’amore.
🍒 Letture 🍒
Un romanzo: Io canto e la montagna balla di Irene Solà è un libro che è quasi una lunga poesia sulle relazioni tra persone, fantasmi, animali e natura in una stretta interconnessione di emozioni e pensieri.
Un classico: Lessico famigliare di Natalia Ginzburg è un libro che non avevo più riletto dall’inizio delle superiori ma di cui avrei voluto leggere altre centinaia di pagine.
Un saggio: Feminist Antifascism: Counterpublics of the Common di Ewa Majewska
Un articolo:
Molly-Mae Hague Just Exposed Influencer Culture for the Thatcherite Poison It Is, interessante articolo uscito su Novara Media sull’impatto ed il significato sociale e politico della dottrina economica dell’influencer culture (un nuovo thatcherismo) + la Ghinea di gennaio in cui viene approfondito il tema.
La M¥SStificazione delle masse: satira e teoria critica nell’epoca del dopo Berlusconi ~ un titolo che è tutto un programma
Beautiful Lies di Kalpana Mohanty, discorso pubblico e bellezza e perchè ancora non ci siamo.
Misc: Matilda, newsletter di consigli non richiesti di libri squisiti dalla brillante Agnese Baini 🧡
🍒 Musica 🍒
Probabilmente siamo scontate ma grande entusiasmo per MOTOMAMI di ROSALÍA 🔥 Sempre in tema nuove uscite, vi consigliamo Motordrome by MØ, dopo un brutto burnout la cantante torna a cullarci con il suo electropop meravigliosamente stucchevole con un album prodotto interamente a Copenhagen in un gruppo di sole donne. MØ siamo anche noi abbastanza in love with your kindness.
🍒 Film 🍒
A cura di Victoria Chuminok <3
Les statues meurent aussi, di Alain Resnais e Chris Marker. Un documentario sulla collezione d’arte africana del Musée de l'Homme che ci mostra come lo sguardo occidentale abbia elevato ad arte oggetti appartenenti ai culti delle civiltà colonizzate, e come questo processo abbia svuotato di significato l’esistenza di questi oggetti, una volta privati del rapporto con il loro tessuto socio-culturale. “Quando gli uomini muoiono entrano nella storia. Quando le statue muoiono entrano nell’arte.”
Zombi child di Bertrand Bonello. Avanzano due storie parallele, quella di un uomo morto e riesumato con il rito vodoo per fare lo schiavo ad Haiti e della sua discendente nella Parigi contemporanea. Con il filone narrativo legato ai teen movie queste due storie si incontrano per affrontare il lascito postcoloniale dell’occidente. Lo trovate disponibile su mubi che prevede una prova gratuita di 7 giorni ;)
🍒 L’Internet 🍒
Video, purtroppo solo in inglese, di Mina Le sulla storia della dieta ~ per la serie cose che pensavamo di sapere (e invece) e cose che dovremmo sapere
E un altro video, ma questa volta tutto in italiano, in cui Antonia Caruso, Nina Ferrante ed Elisa Manici ci parlano di queer gaze
Il collettivo L'Altrosessuale (@laltrosessuale) che (come da bio) esplora sessualità "altre" nello spazio letterario (e non solo!)
È vero, è un altro articolo, ma è anche un po’ l’essenza dell’Internet no?
Formulario di domande utili da fare a possibili futuri capi
Cose che tuttз abbiamo fatto finta di suonare ascoltando Dog Days Are Over di Florence + The Machine
Cose di cui non sapevamo di aver bisogno: thread di confronto Euphoria/Romeo e Giulietta
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Noi siamo arrivate alla fine di questo decimo numero di Interstizi.
Grazie per essere arrivatə fin qui, per averci letto, per averci dedicato del tempo.
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