Benvenut al secondo numero di Interstizi,
una newsletter occasionale che nasce dal bisogno di mettersi insieme, di condividere riflessioni e pensieri fuori da uno spazio predefinito. Una piattaforma informale di confronto e di ricerca su arte, pop culture e attualità che speriamo possa aprirsi nel tempo a tanti punti di vista e modalità espressive diverse. Uno spazio fisico e mentale per germogliare, condividere quello che ci sta a cuore, raccontare e raccontarsi, trovare la propria voce ma anche lanciarsi in qualche sano rant.
In questo numero parliamo della tossicità della diet culture e dell’importanza di imparare a prendere spazio; riflettiamo su come anche in un mondo stravolto da una pandemia, c’è ancora chi vuole disciplinare cosa dovremmo fare con il nostro corpo; vi raccontiamo dell’amicizia e del lavoro di due grandi fotografe, Lisetta Carmi e Dayanita Singh. Anche questo mese in Ciliegie condividiamo infine un po’ di cose che abbiamo letto, visto e ascoltato e che abbiamo amato particolarmente 🍒
Buona lettura!
Fabiola & Giulia
Panorama
A body is a body is a body
*trigger warning: questo articolo parla di immagine del corpo e
diet culture
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Per molto tempo ho avuto l’idea di dover restringere il mio corpo, controllandone ogni singolo aspetto. Esistere in quanto corpo che occupa un certo spazio: non potrebbe esserci niente di più naturale e di più complesso. In un groviglio di messaggi che ci arrivano dalla società e spesso anche da parenti e amici, interiorizziamo un preciso canone di bellezza, un ciclo di comportamenti sempre più difficile da spezzare e un’idea di noi stesse e del nostro posto nel mondo. Ci viene insegnato, più o meno consciamente, a farci più piccole, ad occupare meno spazio con i nostri corpi e le nostre voci e a controllarci in ogni situazione. Queste sono alcune riflessioni nate da un lavoro fatto con me stessa per disimparare il modo in cui vedevo il mio ed altri corpi e per imparare, invece, ad espandermi.
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Qualche tempo fa con alcune amiche siamo cadute in un mini internet rabbit hole di video musicali, iniziando con Telephone, collaborazione di Beyoncé e Lady Gaga del 2010, e finendo con WAP di Cardi B. Ovviamente non è una novità il fatto che negli ultimi cinque anni circa abbiamo assistito ad un cambiamento in quello che viene considerato come il canone estetico di bellezza: dallo strascico del cosiddetto ‘heroin chic’ che, partendo dagli anni Novanta, ha imposto un’immagine di magrezza e fragilità estrema fino ai primi anni Dieci, oggi ad essere celebrati sono corpi di donne come Kim Kardashian. L’estrema magrezza di Beyoncé e Lady Gaga nel primo video mi è risultata scioccante perché, anche se queste sono le immagini con cui sono cresciuta, mi sono ormai del tutto disabituata a vederle - e le stesse star, ora, appaiono in modo totalmente diverso. Nel secondo, invece, si vedono i corpi di oggi, con alcune caratteristiche individuate dalla filosofa Heather Widdows: forme molto più curve ma perfettamente toniche, scolpite da ore di palestra o da costosi interventi chirurgici; pelle patinata, liscia, abbronzata e sempre perfetta, soprattutto quella del volto (niente rughe, niente pori); e giovani, sempre e ad ogni costo. Corpi che occupano più spazio, senza dubbio, ma che devono presentarsi in un modo ben specifico per poterlo fare.
I canoni di bellezza cambiano nel tempo, ma fin dai tempi dell’antica Grecia (kalòs kai agathos) permane l’idea cardine che bellezza voglia dire bontà, chi è ‘bello’ secondo il senso comunemente accettato in quel determinato momento, ha anche delle qualità morali superiori, è una persona di successo e viene reputato più capace. Anche mettersi a dieta e andare in palestra con l’obiettivo di dimagrire vengono associati all’idea di disciplina: se non ci riusciamo, siamo deboli, non riusciamo a controllare i nostri istinti nella vita personale e a maggior ragione non ci riusciremo nella vita lavorativa. Ci sono diversi studi, tanto scientifici quanto socio-psicologici, che analizzano e confermano questo pregiudizio spesso molto profondo (In Italia, Edizioni Tlon ha appena pubblicato Fatshame il primo libro che tratta di grassofobia scritto da Amy Erdman Farrell). La nostra fobia collettiva verso il ‘grasso’, verso l’idea di occupare più spazio con il proprio corpo, è talmente forte che molte di noi sono disposte a fare qualsiasi cosa pur di evitarlo, come se fosse davvero la cosa peggiore che ci possa capitare (posso tranquillamente pensare ad almeno altre 10, ma anche 20, cose peggiori). Eppure, il problema rimane anche dopo anni dalla nascita del movimento body positive, attivo nel promuovere accettazione e amore per il proprio corpo così come è e nel cercare di portare maggiore diversità nel mainstream. Il movimento è spesso stato accusato di collisione con lo stesso sistema di marketing neoliberista che si appropria di tematiche complesse come body positivity o femminismo e le de-problematizza a scopi commerciali. Anche la positività può essere tossica, quando viene usata come facciata per coprire problematiche di rappresentazione (per esempio, vediamo corpi meno magri che in passato, ma la pelle è priva di imperfezioni, liscia in modo irreale senza cellulite o rughe; oppure si tratta di corpi bianchi, corpi eteronormati, corpi abili… le variabili sono infinite), oppure problematiche individuali (non riuscire, per quanto ci si provi, ad avere un rapporto di amore per il proprio corpo).
D’altronde, viviamo ancora saldamente in un mondo in cui essere perennemente a dieta e cercare di restringere e controllare il proprio corpo non sono soltanto comportamenti diffusi, ma anche socialmente accettati e celebrati. Dimagrire viene automaticamente visto come un miglioramento, qualcosa da complimentare, non importa con quali mezzi e in quale stato mentale ci si sia arrivate. Nel corso del tempo ho visto donne e ragazze mangiare porzioni così piccole o restringere così tanti alimenti da rasentare la malnutrizione. Bere acqua al posto di mangiare quando si ha fame. Negare nutrimento ed energia al proprio corpo, a costo di diventare irritabili, sempre affamate, e sempre e comunque scontente. Sono stata anche io bloccata in questo ciclo, alcuni periodi in modo più pesante di altri, in modo ossessivo. Oggi si parla di diet culture per indicare il circolo vizioso in cui molte di noi entrano durante l’adolescenza e rimangono per tutta la vita, seguendo periodicamente regimi di restrizione che non funzionano mai come vorremmo, spesso rovinando metabolismo, salute fisica e sanità mentale. Di recente ho seguito con grande interesse il lavoro di Emily Gellis, influencer americana che su Instagram ha pubblicato migliaia di messaggi privati ricevuti dalle sue followers quando ha aperto una conversazione su alcune diete seguite da molte di loro. Centinaia di donne sono finite in ospedale seguendo uno di questi programmi, F Factor, e consumando le proteine in polvere prodotte dall’azienda (qui per un resoconto della vicenda dato dal New York Times). Nonostante i terribili effetti collaterali di questo regime, tra cui orticarie in tutto il corpo, severi dolori e problemi gastrointestinali, la maggior parte delle donne ha continuato a seguirlo per mesi con conseguenze pesantissime per la salute di alcune di loro, tra cui rimozione di parte del colon o ricovero per malnutrizione. Più comunemente, quasi tutte hanno riportato un peggioramento nella propria salute mentale e nel loro rapporto con il cibo, arrivando ad avere ansia nel mangiare una banana o una ciotola di porridge. La cosa più scioccante è che siamo state quasi tutte ad un passo da essere quelle donne, ricercando una perfezione e un controllo senza mai fine.
La consapevolezza del proprio corpo inizia sempre più presto, soprattutto considerando che oggi molti bambini guardano YouTube e altri social fin da piccolissimi. Le immagini che vediamo ripetersi ogni giorno ci portano ad interiorizzare l’idea di un sistema che predilige alcune tipologie di corpi, spesso associate anche ad alcune tipologie di personalità. Pratiche quasi rituali come truccarsi ogni mattina o depilarsi più o meno di frequente ci ricordano che il nostro corpo ha bisogno di lavoro, che, come da detto popolare, per ben apparire bisogna soffrire. Così fin da piccole impariamo che il nostro corpo non va bene così com’è, che c’è valore nel restare magre, nel sembrare fragili, gentili e sorridenti con tutti. Siamo anzi condizionate a pensare che sia tutto naturale e (parlo qui personalmente) perdiamo anni ed energie a capire che se il nostro aspetto fisico, il nostro carattere, il nostro modo di esprimere le emozioni e pensare non riflettono quello che introiettiamo come “femminilità” è perché questa idea di femminilità nasce come stereotipo patriarcale. Una donna che dice quello che pensa, che esprime emozioni forti, che difende le sue opinioni, con un corpo normale o - non sia mai - con un corpo grande oppure vecchio è una donna che quasi non esiste sulla scena pubblica. Lo spazio occupato dai nostri corpi non è solamente personale ma anche politico, così come restringersi non riguarda esclusivamente il fisico ma anche la personalità, le idee, opinioni e il nostro posto nel mondo.
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Oggi più che mai, l’immagine è distorta e impossibile da raggiungere, con una percentuale altissima di corpi percepiti come perfetti che sono in realtà il risultato di modifiche effettuate con app come FaceTune o programmi con Photoshop, oppure di interventi di chirurgia estetica. Jia Tolentino, in un saggio pubblicato sul New Yorker, ha parlato di ‘Instagram Face’ come di un fenomeno sempre più diffuso sulla piattaforma che ha creato un preciso standard di bellezza attraverso figure come Kim Kardashian, Kylie Jenner, Bella Hadid e Emily Ratajkowski. Tolentino descrive questa immagine con le seguenti parole:
«It’s a young face, of course, with poreless skin and plump, high cheekbones. It has catlike eyes and long, cartoonish lashes; it has a small, neat nose and full, lush lips. It looks at you coyly but blankly, as if its owner has taken half a Klonopin and is considering asking you for a private-jet ride to Coachella. The face is distinctly white but ambiguously ethnic.»
Si tratta di un corpo ottenuto tramite interventi di chirurgia estetica invasivi, come liposuzione o impianti al seno o al sedere, ma soprattutto non invasivi, le cosiddette injectables, ovvero filler di acido ialuronico e Botox che permettono di scolpire il viso a prezzi molto più accessibili. E il resto lo fanno filtri e app per modificare le immagini e i filtri di Instagram, grazie ai quali ciascuna di noi può vedere una versione “lavorata” di se stessa (a face that’s had work done = a perfect face). Se i social hanno offerto una piattaforma per diffondere maggiormente il messaggio del movimento body positive e per rendere più orizzontale l’immagine di un corpo desiderabile, perché potenzialmente ogni corpo può diventare immagine pubblica, dall’altro la facilità con cui le immagini (e i corpi stessi) possono essere modificate rende sempre più difficile una vera accettazione del proprio corpo. Pagine Instagram come @celebface e molte altre sono nate per mostrare i trucchi utilizzati da celebrities e influencers, per aprire gli occhi soprattutto alle generazioni più giovani e mostrare come non sia possibile competere con l’immagine di persone che non corrisponde neppure a quello che loro stesse sono nella vita reale.
Nonostante ci sia oggi una nuova estetica, l’ossessione rimane sempre sul controllo del corpo, ma un controllo ancora più impossibile da ottenere che perdere peso. E invecchiare, per le donne soprattutto, sta diventando sempre più un tabù dato che, tra filler, Botox e foto ritoccate, non vediamo mai rughe o imperfezioni sui volti di figure pubbliche. Con i filtri di Instagram possiamo anzi vedere la nostra faccia più giovane, le nostre labbra più grandi o l’architettura della nostra faccia ri-sistemata in modi impercettibili ma significativi e questo rende ancora più difficile accettare quello che siamo. In nessun modo questo articolo vuole denigrare chi ricorre a procedure estetiche di qualsiasi tipo - non escludo neppure io di provarne qualcuna in futuro - ma si tratta di riflettere su tutto il contorno di pensieri, ansie, ossessioni ed energia sprecata nel controllo dei nostri corpi, nella nostra impossibilità di accettare che il nostro corpo esista, così come è, che sia valido e perfetto, così come è, che non abbia bisogno di migliorie o cambiamenti.
Attraverso il rapporto che siamo portate ad instaurare con il nostro corpo, ogni giorni ci sembra simultaneamente di non essere mai abbastanza e di essere troppo, ma una tipologia sbagliata di ‘troppo’. Ci sembra di poter farci vedere o farci sentire solo se siamo perfette, inappuntabili, senza rughe e senza difetti. Ma la verità è che siamo già abbastanza così come siamo, che abbiamo ogni diritto di occupare spazio con il nostro corpo e di riempirne ancora di più con la nostra personalità. Abbiamo diritto ad un corpo che possa espandersi al posto di comprimersi, adattarsi, accontentarsi, controllarsi. Come dice la mia insegnante di yoga preferita alla fine di una lezione, lasciate che il vostro corpo occupi più spazio possibile, che il suo peso si abbandoni completamente sul pavimento.
Fotoromanzo
// Proteste in Polonia (in foto la manifestazione di Varsavia del 30 ottobre) contro la corte costituzionale che il 22 ottobre ha dichiarato che l’aborto è contrario alla costituzione anche nei casi di gravi malformazioni del feto, cancellando di fatto qualsiasi possibilità di interrompere la gravidanza legalmente.
// Aprons of Power, performance realizzata dall’artista Rachel Fallon alla EVA International Biennale di Limerick nel 2018 come parte della campagna per abrogare l'ottavo emendamento della costituzione irlandese (Constitution Act del 1983) secondo cui veniva riconosciuto l'uguale diritto alla vita della donna incinta e del nascituro. Dopo più di venti anni, nel 2012 nasce la campagna #RepealThe8th a seguito della morte di Savita Halappanavar. Il 25 maggio 2018, il popolo irlandese ha votato con il 66,4% per rimuovere l'ottavo emendamento.
// Infografica di Obiezione Respinta, piattaforma autogestita nata per denunciare la sistematica non applicazione dell’art. 194 a causa di un’incidenza preoccupante di obiettori di coscienza in larga parte del personale sanitario fino alla categoria dei farmacisti - quando non è prevista alcuna obiezione per la contraccezione, nemmeno d’urgenza. Durante la quarantana, quello che è già di per sè un percorso a ostacoli in quasi tutte le Regioni, è diventato quasi impossibile poichè tale pratica non viene considerata servizio essenziale.
Interludio
un articolo in più
If you wanna be my lover
As a body – and this is the only important thing about being a subject-body, a techno-living system – I’m the platform that makes possible the materialization of political imagination. - Paul B. Preciado (2013)
Mi sembra doveroso iniziare questo articolo con alcune precisazioni estremamente personali. Ho cominciato a riflettere sul tema del lavoro affettivo da qualche mese per motivi terzi, ma l’amore e soprattutto l’amicizia sono stati due sentimenti con cui ho avuto per anni un rapporto complicato. Ho sofferto molto la mia incapacità di instaurare rapporti significativi, o almeno rapporti che io identificavo come tali sulla base di ciò che vedevo in televisione, in cui le amicizie sono rappresentate come rapporti idilliaci e totalizzanti, senza sfumature e senza compromessi. Tutto o niente. Negli ultimi anni sono riuscita a fare pace con questa parte di me e a capire il valore delle sfumature dei rapporti umani, la profondità delle relazioni interpersonali ed è diventato per me sempre più necessario riflettere su questa complessità. Ho realizzato la fortuna che ho avuto di incontrare nella vita persone davvero meravigliose, brillanti, empatiche e generose e sono anzi arrivata alla realizzazione - non scontata per un sole in Capricorno saturnino come me - che tutto quello che sono lo devo alla somma dell’amore che ho ricevuto. Ciao, vvb!
In questi ultimi mesi amore e amicizia, e il ruolo di tali emozioni nell'organizzazione sociale e produttiva, sono diventati per me oggetto di analisi teorica, soprattutto in relazione al nostro attuale sistema economico-produttivo e alla preziosa eredità del Femminismo. Come evidenzia Nancy Fraser in un’intervista uscita nel 2016, nelle società capitaliste il lavoro riproduttivo non viene riconosciuto come economicamente di valore poiché i rapporti sono percepiti come naturali e dunque gratuiti ed infinitamente disponibili. Viene dato per scontato che ci saranno sempre energie sufficienti per sostenere le connessioni sociali da cui dipendono la produzione economica e la società più in generale. Tuttavia, è importante notare come l’attuale organizzazione sociale e produttiva, se da una parte pone alla base del proprio sostentamento l’amore disinteressato, produce dall’altra un’erosione progressiva e sistematica dei rapporti umani. In questo senso, Fraser parla di crisis of care, una “crisi della cura” che la filosofa mette in stretta relazione con l'attuale crisi ecologica, in quanto ulteriore modalità di sfruttamento perenne e sregolato di risorse collettive per fini individuali.
Nel saggio Is it Love?, Brian Kuan Wood fa eco a questa riflessione, mettendo in luce come nell’attuale organizzazione sociale l'amore venga spesso tradotto in termini puramente economici ovvero come un'unione basata sul debito reciproco: «without time and energy of your own, love is the conduit through which you extract the time and energy of others».
In quanto parte di un sistema precario, in cui lavoro e vita si sovrappongono continuamente e in cui sembriamo sempre tutti così stanchi, rabbiosi, impauriti e alienati, sembra quasi impossibile riuscire ad instaurare un rapporto sano con se stessi e con gli altri. Lo scorso novembre un tweet di Melissa A. Fabello ha creato una piccola ma intensa discussione all’interno della bolla particolarmente belligerante di Twitter. Nel tweet in questione, Fabello aveva voluto condividere un modello di risposta da utilizzare con i propri affetti nei momenti in cui si è mentalmente ed emotivamente impossibilitati ad essere presenti per loro:
Contenuto del tweet a parte, ciò che ho trovato particolarmente interessante è stato il processo collettivo che ha portato a riflettere su cosa questo tweet dicesse realmente riguardo la nostra difficoltà nel nutrire i rapporti affettivi in un contesto di continuo auto-sfruttamento, frammentazione e distruzione del tessuto sociale.
Dobbiamo dunque rassegnarci a questa visione dei rapporti basata sullo status, la performatività e l’estrazione reciproca? Prendo qui in prestito il lavoro di Rhaina Cohen, che in un articolo uscito il 20 ottobre 2020 sull'Atlantic ci chiede: What If Friendship, Not Marriage, Was at the Center of Life?
In un contesto sociale in cui ogni relazione viene messa a valore sulla base di criteri patriarcali di individualità ed eteronormatività, Cohen ci invita a guardare all'amicizia come uno strumento di trasformazione politica partendo da un sovvertimento della struttura sociale attuale, che si sviluppa attorno alla coppia e di conseguenza alla famiglia mononucleare, per individuare nuove concezioni di intimità e cura. Nel suo articolo Cohen descrive come storicamente tra il XVIII e l'inizio del XX secolo, le grandi amicizie o "amicizie romantiche”, spesso tra persone dello stesso sesso, fossero considerate normali e anzi auspicabili. Non esistendo categorie nette e binarie di divisione sessuale, che considerano l'attrazione sessuale come parte dell'identità di una persona, questi legami si basavano su regole esterne a quelle familiari e permettevano agli individui di creare propri canoni e forme di relazione. Con il processo di emancipazione femminile prodotto dai primi movimenti femministi, queste amicizie tra donne diventarono però un ostacolo all’ordine patriarcale, rappresentando un’alternativa e un supporto affettivo grazie al quale le donne potevano intraprendere con più serenità una carriera ed eludere il legame matrimoniale. Si cercò allora di instaurare una rigida gerarchia dei rapporti umani in cui l’amicizia, categorizzata come rapporto infantile e privo di un riconoscimento legale, potesse essere relegata al fondo e vista come legame superficiale, privo di un reale valore sociale.
Nell’episodio dedicato alla monogamia della serie Netflix In poche parole, viene efficacemente sintetizzato come la monogamia, lungi dall’essere un dato naturale quanto più una costruzione sociale ed economica, sia nata con il passaggio all’agricoltura e l’affermazione del concetto di proprietà privata. Gran parte della vita sulla terra, l’uomo ha vissuto all’interno di una società egualitaria, dove tutti si prendevano cura di tutti e dove vigeva un sistema di comunanza in ogni aspetto della vita, anche nella genitorialità. La stessa idea del matrimonio per amore è un concetto recente, riconducibile all’età vittoriana, nato per rafforzare una visione binaria e conservatrice della società. Questa idea viene però messa oggi sempre più in discussione non solo all’interno delle comunità LGBTIQA+ e queer, a cui si riconosce il merito di aver portato avanti un grande lavoro di decostruzione dei rapporti umani socialmente codificati e di promozione di modelli alternativi di sviluppo e di organizzazione affettiva Anche personaggi più mainstream come la psicologa Esther Perel hanno messo in discussione l’idea di poter avere tutto quello di cui abbiamo bisogno sul piano non solo sessuale ma soprattutto emotivo, intellettivo ed affettivo da un unico essere umano rappresenta un paradosso e una distorsione dei rapporti sociali che non può che portare a sentimenti di frustrazione e delusione.
Diviene necessario così chiedersi, su quali basi e attraverso quali criteri decidiamo il valore dei nostri rapporti? Come sviluppare rapporti che non seguano necessariamente schemi predefiniti per inventarsi una propria struttura organizzativa ed emotiva, oltre le tradizionali categorie del romantico e del platonico?
L’artista Céline Condorelli porta avanti da diversi anni una riflessione sulle strutture di supporto. InReprint, articolo pubblicato nel 2012 su Mousse, l’artista si concentra sul tema dell’amicizia, riconoscendola come condizione essenziale della propria pratica artistica, nonché come contesto formativo e operativo politicamente connotato, all’interno del quale sviluppare molteplici e simultanei livelli espressivi:
«Friendship, like support, is considered here as an essentially political relationship, one of allegiance and responsibility. Being a friend entails a commitment, a decision, and encompasses the implied positionings that any activity in culture entails. In relationship to my practice, friendship is, at its most relevant in relation to a labour process: as a way of working together.»
Partendo da un’esplorazione delle radici classiche del pensiero sull'amicizia, l’artista evidenzia come questo concetto sia stato tradizionalmente trattato all’interno di una cornice “fratriarcale” - una nazione di fratelli - da cui venivano programmaticamente esclusi donne, schiavi ed in generale tutti coloro che erano considerati inferiori per status o provenienza. Secondo Condorelli, per riappropriarsi dell’amicizia come pratica politica è necessario riscoprire e attuare modalità di relazione che partono proprio dalle attività degli esclusi, dei marginalizzati.
Invece di continuare a sentirci sbagliate e dare voce ai sensi di colpa perchè non sembriamo uscite da un episodio di Sex and the City - e anzi, vi consiglio le ultime due stagioni di Insecure per una rappresentazione davvero onesta, profonda e articolata - trovo particolarmente interessante l’idea di ripartire dall’amicizia quale modello relazionale fluido, aperto e plurale, privo di gerarchie predefinite, per immaginare nuove modalità di organizzazione che vadano oltre i valori della competizione, dell’esclusività e della performatività.
A fuoco
La notte di Capodanno del 1964 Lisetta Carmi viene invitata ad una festa clandestina, organizzata dalla comunità queer e trans della città di Genova. Negli anni in cui iniziavano le proteste della seconda ondata femminista, le comunità LGBTIQA+ erano più che mai marginalizzate e misconosciute. A Genova, queste persone abitavano principalmente nel vecchio quartiere ebraico, non lontano dal porto dove molt* di loro lavoravano durante il giorno. Carmi era una fotografa poco conosciuta ma emergente. Aveva abbandonato la sua carriera di pianista per dedicarsi alla fotografia e aveva appena terminato la realizzazione di quella che sarebbe diventata una delle sue serie più famose, Genova Porto. Per documentare le condizione di lavoro durissime dei lavoratori del porto, Carmi aveva finto di essere la cugina di uno di essi e, riuscita ad accedere all’interno dell’autorità portuale, aveva scattato le immagini clandestinamente.
La serie I Travestiti (1965-1970) nacque invece dall’invito che Carmi ricevette da alcun* esponent* della comunità genovese. La fotografa si immerse nel lavoro in modo totale, trasferendosi anche lei nel centro storico per essere più vicina ai suoi soggetti e scegliendo di fotografare con la massima naturalezza. Non ci sono pose o immagini costruite, ma momenti intimi e quotidiani come cucinare, partecipare a feste, vestirsi e truccarsi e, talvolta, guadagnarsi da vivere con il lavoro sessuale. Lo sguardo di Carmi è empatico, non giudica, lascia le persone ritratte libere di essere ciò che vogliono. Le sue fotografie ci restituiscono una rappresentazione inedita di una comunità che veniva costantemente marginalizzata, giudicata, non compresa, derisa e attaccata (e oggi, purtroppo, non siamo messi molto meglio). Vediamo gioia, affetto, tenerezza, persone che ridono insieme e si aiutano, persone che si mostrano nella loro forza e bellezza. Rappresentazioni di questo tipo sono rare oggi e lo erano ancora di più negli anni Sessanta e Settanta.
In alcune delle immagini, troviamo riferimenti al mondo della religione, sotto forma di generici quadretti di Gesù o della Madonna, oppure di crocifissi, appesi alle pareti (come spesso avviene nelle case prese in affitto). Queste raffigurazioni impongono la loro presenza nelle immagini con una certa forza iconografica, facendoci pensare al conflitto personale e sociale affrontato dalla comunità LGBTQA+, tanto in quegli anni quanto in tempi ben più recenti. L’espressione dell’identità personale si scontra con i dettami della religione, che vieta qualsiasi allontanamento da un rigido sistema binario di generi, ruoli e identità.
Lisetta Carmi, oggi 95enne, si ritirò dalla scena artistica italiana negli anni Ottanta. trasferendosi in un piccolo paese in Puglia dove ha fondato un ashram. La serie I Travestiti ha trovato una certa fama solo negli ultimi anni, ma le amicizie strette da Carmi con molti dei
suoi soggetti sono andate avanti per diversi decenni (oggi solo un* di loro è ancora in vita).
In una rara dichiarazione, Carmi ha espresso l’importanza che questo lavoro ha avuto per lei: "Grazie alla comunità trans ho imparato ad accettarmi. Quando ero piccola guardavo i miei fratelli Eugenio e Marcello pensando che avrei voluto essere un maschio come loro. Sapevo che non mi sarei mai sposata, e rifiutavo il ruolo che veniva chiesto di occupare alle donne. I travestiti mi hanno fatto capire che tutti abbiamo il diritto di decidere chi siamo".
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Nel 2011, la fotografa indiana Dayanita Singh ha pubblicato Myself Mona Ahmed, una raccolta di fotografie e lettere da lei realizzate e scritte a partire dagli anni Novanta. Il lavoro racconta della sua amicizia con Mona, una donna appartenente alla comunità hijra, ovvero la comunità transessuale, in India spesso considerata come il terzo sesso. Nata in una ricca famiglia musulmana prima dell’indipendenza indiana, Mona viene prima abbandonata dalla sua famiglia per il suo genere e poi abbandonata anche dalla comunità hijra per le sue scelte, come ad esempio quella di adottare una figlia.
Il titolo del progetto riunisce i due nomi di questa persona: Ahmed, quello che la sua famiglia le ha assegnato, e Mona, quello con cui è entrata a far parte della comunità hijra. ‘Myself’ pone invece l’enfasi su qualcosa che viene prima, sull’identità, su quello che siamo prima di tutto, una sorta di nucleo profondo, di significati che resistono ai ruoli che ci vengono assegnati dagli altri. L’amicizia tra Mona e Singh inizia quando la fotografa incontra in un parco di Delhi alcune persone hijra che, molto spontaneamente, la invitano alle loro feste e nello loro case. Singh inizia a fotografare le loro vite ed esperienze quotidiane e incontra così Mona, legata al guru Chaman e alla sua comunità segreta che permette accesso esclusivo a Singh. Nel corso degli anni, il rapporto di amicizia tra Mona e Singh diventa sempre più profondo, man mano che la figlia di Mona si allontana completamente da lei e Mona stessa si isola del tutto dalla comunità hijra. Negli ultimi anni della sua vita si ritira in una piccola casa nel cimitero Mehendiyan dove vive con i suoi animali fino alla morte, nel 2017.
Le email pubblicate nel libro sono trascrizioni quasi letterali delle storie e dei pensieri che Mona ha condiviso con Singh nel corso degli anni. In una di queste, Mona commenta il modo in cui chiunque incontri un ‘eunuco’ (come lei stessa lo definisce), non si preoccupi di ascoltare il loro punto di vista o di fare ricerca per scoprirlo. Tutti hanno le proprie teorie, opinioni, nomi e nomignoli, ma nessuno ha accesso alle anime e identità di queste persone. In Singh e nel suo approccio, Mona riconosce un alleato: «So many people have come to ask me about my life story from when I was young, but I have not told anyone. It is the first time I am telling my story, because I know you will write it the way I want and will not add spice to sell.» E Singh trova una persona che ha cambiato il suo modo di vedere le cose.
Ciliegie
i nostri pick culturali
🍒 Podcast 🍒
Bow Down: Women in Art History è una produzione di frieze, in cui la editor-at-large Jennifer Higgie intervista artist*, scrittric* e intellettual* per raccontare le storie di donne dimenticate nella storia dell’arte internazionale. Gli episodi durano 20 minuti e c’è la prima stagione da ascoltare in arretrato :)
🍒 Letture 🍒
un libro: This is a work of fiction di Alina Lupu, una raccolta di testi sulla precarietà del lavoro artistico e culturale, descritto attraverso situazioni reali e immaginarie che mettono in luce la vulnerabilità e i paradossi della professione artistica ~ There was a lot of irony in holding on to the romantic ideal that your artistic education will lead you any step closer to achieving enlightenment when in fact enlightenment had been cozily sitting within real estate all along.
un romanzo: Stagno di Claire-Louise Bennet, (Bompiani), un libro dall’atmosfera perfetta per l’autunno, a metà tra romanzo, monologo e raccolta di racconti in cui nessun dettaglio è troppo triviale per la protagonista. L’attenzione ai dettagli, agli oggetti e ai gesti della quotidianità nella vita appartata della giovane donna nascondono però un tagliente umorismo e grande forza di carattere. Il libro appare meditativo in alcuni punti, ma mai rarefatto.
un articolo: Happy Birthday Kim K!
🍒 Musica 🍒
Gore, il primo album di Lous and The Yakuza ~ tra le cose più belle di questo 2020? Decisamente
🍒 Film 🍒
This is Paris il documentario sulla vita di Paris Hilton, disponibile gratuitamente su YouTube per il loro canale Originals. Uscito a metà settembre, ha già fatto milioni di visualizzazioni - tutte meritatissime. Il film ci mostra una Paris umana, perfettamente consapevole del contrasto tra la sua persona pubblica (stupida, superficiale, frivolamente allegra) e la donna intelligente, sola, gentile e vulnerabile che nessuno conosce. ll film racconta in particolare di un trauma subito da adolescente che ha perseguitata Hilton per decenni, facendole trovare solo ora il coraggio di passare all’azione.
🍒 L’Internet 🍒
How do I feel about other people’s freeeeeeedom? Ci chiede @giulia_lineette
INSTINTO PERREO programma radiofonico di KEBRA e Promotores Culturales Comunitarios de la Ciudad de Mexico per una vita in abbondanza e perreo per tutte.
Carboloading raccoglie frame di film e serie tv di donne che si allenano correndo (no damigelle in pericolo). Prende ispirazione dalla cultura pop e si ispira al profilo @flipslaps
Il profilo Forgotten Architecture creato dall’architetta Bianca Felicori per raccontare esempi dimenticati dell’architettura moderna. Da ottobre una parte di questa ricerca è presentata all’interno della Triennale di Milano con la conferenza TRAP ARCHITECTURE, in cui Felicori discute insieme a vari ospiti discute il ruolo dell’architettura nella produzione video-musicale italiana.
E per finire, pura bellezza dal mondo di Twitter, che ci propone canetti fotografati in buffe circostanze e piante che vivono la loro vita nelle nostre case 💜
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Noi siamo arrivate alla fine di questo primo numero di Interstizi.
Grazie per essere arrivate fin qui, per averci letto, per averci dedicato del tempo.
Interstizi è in fase di sperimentazione totale quindi se avete suggerimenti, feedback o volete semplicemente condividere con noi cosa vi passa per la testa potete rispondere a questa mail, seguirci su Instagram o scriverci a interstizinewsletter@gmail.com - se invece sei qui per sbaglio ma vuoi saperne di più puoi iscriverti qui.
Interstizi è un progetto a cura di Fabiola Fiocco e Giulia Pistone.
A presto! 🌿