Benvenutə al ventunesimo numero di Interstizi,
una newsletter occasionale che nasce dal bisogno di mettersi insieme, di condividere riflessioni e pensieri fuori da uno spazio predefinito. Una piattaforma informale di confronto e di ricerca su arte, cultura pop e attualità che speriamo possa aprirsi nel tempo a tanti punti di vista e modalità espressive diverse. Uno spazio fisico e mentale per germogliare, condividere quello che ci sta a cuore, raccontare e raccontarsi, trovare la propria voce ma anche lanciarsi in qualche sano rant.
Questo numero è un po’ diverso dagli scorsi Interstizi estivi e giocosi perché, parliamoci chiaro, quest’estate è decisamente poco briosa. Si è aperta con i bombardamenti di Israele contro l’Iran il giorno del solstizio, tenendo il mondo con il fiato in sospeso di fronte alla possibilità di una guerra su vasta scala, e, nei giorni in cui stiamo chiudendo questo numero, da Gaza arrivano scene strazianti per la carestia genocida causata dal blocco di Israele sull’arrivo di qualsiasi tipo di aiuto umanitario. È difficile esistere normalmente in un mondo in cui le nostre voci contano poco, in cui assistiamo ad orrori sempre più intollerabili, a fronte di quella che sembra una quasi inesistente possibilità di azione. Ma quel poco è pur sempre qualcosa: la campagna per il boicottaggio di aziende con forti investimenti o affiliazioni con il governo israeliano; le donazioni verso le poche organizzazioni che riscono dal basso ad operare a Gaza reperendo e distribuendo il poco cibo e i pochi medicinali ancora disponibili; restando informat3 e soprattutto non restando in silenzio. In un recente post, il poeta inglese David Gate si chiede se e come possiamo vivere le nostre vite e i momenti di felicità che proviamo nelle nostre vite privilegiate, nonostante quanto sta accadendo. La domanda più rilevante non è, forse, se possiamo provare gioia pur sapendo che le persone a Gaza muoiono di fame, ma, che cosa facciamo di questa contentezza? Ci rende più consapevoli della gioia che si perde nella sofferenza o ci anestetizza in un coma di rifiuto e negazione? Ci rende più aperti verso la sofferenza degli altri oppure ci chiude ancora di più nelle nostre bolle di privilegio e comfort? Provo nonostante tutto a cercare di dare un nome a questa sensazione. Quando assistiamo ad un’ingiustizia talmente enorme c’è una sorta di fatalismo che si insinua. Una voce interiore che dice: non puoi fermare un genocidio con una poesia. O con un post. O con una newsletter ben scritta su substack. Ma sto iniziando a capire che non puoi nemmeno fermarlo senza queste cose. Non puoi fermarlo senza persone che empatizzino. (qui il link per leggere tutto il post, molto più ricco di questo breve estratto che abbiamo tradotto.)
In questo numero vi parliamo di impostori più o meno fraudolenti e della difficoltà di dire addio. Alla fine, come sempre, le nostre ciliegie da consumare una dopo l’altra o a manciate tutte in contemporanea.
Buona lettura! 🌿
Fabiola & Giulia
Panorama
Impostori senza sindrome
Nel 1852 Roger Tichborne, un ricco baronetto inglese, sparisce misteriosamente durante un viaggio in Sud America, forse in seguito ad un naufragio. In assenza di chiare conferme sulla sua sorte, la madre si rifiuta di accettare la morte del figlio, fomentata anche da dicerie che Sir Roger sia sopravvissuto e si trovi in Australia, e fa pubblicare sui giornali australiani diversi articoli per cercare di ritrovarlo. Nel 1866, un macellaio di Wagga Wagga dichiara di essere in realtà Sir Roger. Spostatosi a Sidney, il sedicente Sir Roger riesce a raccogliere abbastanza consenso e denaro da finanziare un viaggio in Regno Unito, accompagnato da Andrew Bogle, un ex schiavo giamaicano della famiglia Tichborne trasferitosi poi in Australia, ad avvalorare ulteriormente la sua identità. Una volta raggiunta l’Europa, Lady Tichborne riconosce subito il macellaio-baronetto come proprio figlio, salvo morire poco dopo, ma non senza avergli assicurato una cospicua eredità. Nonostante la convinzione di Lady Tichborne, Andrew Bogle, nonché dell’avvocato e del medico di famiglia che l’aspirante Sir Roger sia veramente chi dichiara di essere, tutto il resto della famiglia Tichborne lo crede fin da subito un impostore, avviando un processo che, tra il 1871 e il 1874, ossessiona il Regno Unito. Il romanzo storico L’impostore di Zadie Smith (2023) si svolge proprio durante il processo, con la protagonista femminile che si reca in tribunale a Londra per seguire le diverse udienze, insieme ad un nutrito pubblico popolare che simpatizza unilateralmente con il sedicente Sir Roger. Come scrisse al tempo Arabella Kenealy, scrittrice, scienziata e figlia di uno degli avvocati coinvolti nel caso (e citata da Smith nel suo romanzo), questo strano episodio può essere considerato come una sorta di uragano etico che, arrivato all’improvviso in mezzo alla società, ne scompigliò gli animi. Nelle sue correnti rapide e multidirezionali erano coinvolte tutte le passioni umane: pregiudizio, giustizia, rabbia, amarezza, eroico disinteresse, cupidigia, ambizione, devozione, codardia, coraggio - in breve, tutte le forze e le debolezze degli uomini - tutta la gamma dei moventi e delle emozioni concentrate ed emanate da un unico grande, malinconico e mostruoso Personaggio. Nelle sue pagine, Smith ricostruisce le conversazioni accese e conflittuali tra i personaggi del romanzo con le loro diverse opinioni sull’innocenza del sedicente Sir Roger, mentre la protagonista nota sgomenta il contegno del personaggio in questione durante il processo: gli occhi velati, la sicurezza di essere ciò che si dichiara di essere, nutrita dalla folla che crede in lui. Com’è possibile che questa non sia la verità, se tutti ci credono, se il volto stesso della persona in questione sembra un libro aperto di sincerità, se le sue risposte sono talmente semplici e concise da non sembrare mai scuse o giustificazioni, se la sua stessa madre lo ha riconosciuto come Sir Roger? Eppure, nel 1874, il sedicente baronetto viene dichiarato ufficialmente un impostore, la cui vera identità è quella di Arthur Orton, un macellaio di Wapping da tempo emigrato in Australia, anche se gran parte dei suoi sostenitori continuerà a credere che egli sia davvero il redivivo Sir Roger.
Un caso si chiude, ma le storie di impostori, truffatori e imbroglioni sono vecchie e nuove allo stesso tempo, in un certo modo sempre universali nei loro elementi: qualcuno mente in maniera più o meno convincente e sofisticata per fregare un’altra persona, un gruppo di persone oppure un intero sistema, facendo leva sui suoi meccanismi. Da persona completamente indifferente alle storie di omicidi o rapimenti, consumo sempre con grande coinvolgimento le storie di questa tipologia di crimini, le truffe o i cosiddetti scam, che sembrano essere sempre più diffuse e con conseguenze spesso drammatiche per chi ne rimane vittima. Non parlerò qui delle truffe che coinvolgono le persone normali e che hanno conseguenze orribili sulle loro vite e su quelle delle loro famiglie gettandole spesso nella più totale instabilità economica, ma dei casi veramente eclatanti di impostori che invece riescono a truffare un sistema lavorando ai margini e tra gli spiragli, dove a farsi male sono principalmente grandi aziende e fondi di investimento.
La figura centrale in qualsiasi storia di scam o schema piramidale è sempre l’impostore, il truffatore che assume un’altra identità per raggiungere i propri obiettivi fraudolenti, o che mette in piedi una ragnatela di bugie talmente complessa e convincente da fare presa sulla realtà e, per un lasso di tempo più o meno duraturo, arrivando a sostituirla. Con-man, da ‘confidence man’, uomo di fiducia, perché l’impostore manipola le vittime guadagnandosi la loro più totale fiducia e convincendole della propria verità per truffarle. Il linguaggio attorno agli scam è spesso fortemente declinato al maschile, anche se non è questo genere ad avere l’esclusiva di alcuni tra gli impostori recenti più di successo.
Tra il 2013 e il 2017, Anna Delvey (anche se il suo vero cognome è Sorokin) si inserisce nell’alta società e nel mondo dell’arte newyorchesi fingendosi una ricca ereditiera tedesca. Per quattro anni, Delvey vive in alberghi di lusso e mangia in ristoranti costosissimi in giro per New York convincendo ricchi conoscenti a pagare per lei senza mai rimborsarli o semplicemente aprendo conti in vari locali, senza mai saldare il dovuto. Per mesi alloggia in un hotel di Soho distribuendo mance in contanti allo staff ma senza registrare una carta di credito per le spese della camera, i pasti al ristorante, i massaggi nella spa dell’albergo e gli allenamenti nella palestra, ammassando un debito di 30.000 dollari che riesce a pagare depositando assegni falsi per 160.000 dollari su uno dei suoi conti con Citibank, da cui riesce a ritirare 70.000 dollari prima che gli assegni siano invalidati. Nel frattempo Delvey è sempre in giro per eventi sociali e inaugurazioni a New York, lavorando a tempo pieno verso il suo obiettivo di creare la propria fondazione d’arte. Falsificando diversi documenti per fingere di avere un nutrito conto bancario in Svizzera, Delvey riesce ad ottenere un prestito da 100.000 dollari da Fortress, parzialmente ritirato quando il direttore si accorge di alcune incongruenze nella sua documentazione, ma di cui comunque Anna riesce ad ottenere e spendere 55.000 dollari in vestiti firmati, trattamenti di bellezza e personal training. Il castello di carte costruito da Delvey crolla definitivamente a maggio 2017, quando Anna invita due amiche e un fotografo a viaggiare ‘a sue spese’ in un resort esclusivo in Marocco per l’esorbitante cifra di 7.000 dollari a notte. Fin da subito è evidente che Delvey non ha pagato il pernottamento in anticipo e i manager dell’hotel cercano di ottenere la somma dovuta, anche se la carta di credito di Anna sembra non funzionare mai. Su insistenza dello staff, Delvey convince la sua amica Rachel Williams a pagare il conto da 62.000 dollari con la promessa di restituirle immediatamente la cifra, promessa chiaramente mai mantenuta, anche se Williams riuscirà poi a riavere indietro parte del debito dall’azienda della sua carta di credito e a ripagare il resto della somma con i profitti del libro scritto sulla storia della sua amicizia con Delvey. Dopo altri mesi di truffe e imbrogli, Anna viene finalmente arrestata in California nell’ottobre del 2017. Il seguitissimo processo, per cui Anna assume addirittura una stylist per coordinare i suoi outfit durante le udienze, si conclude nel 2019 con la condanna di Sorokin per otto dei dieci capi di imputazione e con la dichiarazione della stessa Sorokin durante un’intervista: “ Il fatto è che non sono dispiaciuta. Mentirei a te, a tutti quanti e a me stessa se dicessi che rimpiango quello che ho fatto. Il mio movente non sono mai stati i soldi. Ero affamata di potere.”
E in un certo senso, proprio la truffa o meglio le molteplici truffe messe in piedi da Anna l’hanno portata dove voleva essere, ovvero a firmare un lauto accordo con Netflix per la produzione della serie Inventing Anna, a diventare una collezionista d’arte e un personaggio pubblico attivo nel mondo dell’arte, della moda e della TV di base a New York, ricca sia di soldi che di potere.
Certo, la giustizia a suo modo ha fatto il suo corso, ma se Delvey/Sorokin ce l’avesse fatta fin dall’inizio, nessuno avrebbe mai dubitato di lei e, soprattutto, lo stesso sistema che ha truffato la sta ora ripagando lautamente per la sua audacia. D’altronde, le azioni di Sorokin incarnano precisamente gli ideali alla base del sogno americano: l’uomo (o la donna, in questo caso), che si è fatt* da sol*, che ha saputo credere in se stessa fino a farcela, fake it until you make it, perseguendo ossessivamente un’ambizione. I mezzi con cui Sorokin ha cercato di farcela sono sicuramente illegali, ma anche qui è abbastanza inevitabile non sentire una certa fascinazione per una persona che riesce a convincere manager di hotel di lusso, ricchi investitori e personaggi del mondo dell’arte e della moda a finanziare il suo stile di vita, nonché a truffare banche e fondi d'investimento con documenti forgiati su Word, email false e assegni invalidi per un totale di circa 275.000 dollari.
La determinazione, il sangue freddo, l’infallibile sicurezza in se stessa, l’attenzione al dettaglio per non suscitare sospetti, l’ambizione e la disinvoltura che ci vogliono per portare avanti una simile rete di truffe per quattro anni sono praticamente inimmaginabili per noi persone normali che soffrono invece della sindrome dell’impostore, ovvero sentirsi un impostore anche in contesti e ruoli che invece saremmo perfettamente qualificati a rivestire. L’audacia di mentire spudoratamente e fino alla fine, quando noi spesso ci sentiamo delle frodi anche con le nostre credenziali iper verificate, l’attaccamento perverso ad una storia, fino alla fine, contro tutti, contro la verità, la mancanza di rimorso e di paura per le conseguenze delle proprie azioni, per l’imbarazzo e la distruzione dell’ego che arrivano con l’essere scoperti e il conseguente crollo del castello di carte.
Se da una parte la figura dell’impostore porta la sicurezza in se stess* ad un tale estremo che non è possibile che non ci sia qualcosa di patologico, dall’altra si tratta di personaggi che incapsulano talmente bene l’ideologia capitalista che potremmo dire che ci viene richiesto di essere tutt* un po’ impostor* di noi stess*. Siamo chiamat* a performare noi stess*, a creare una maschera e un’identità sul lavoro, nelle relazioni interpersonali, nelle immagini che proiettiamo sui social media, un performativo che diventa parte integrante della nostra identità, al punto che sappiamo e non sappiamo di mentire.
Jay Shetty è uno dei più celebri guru contemporanei dell’auto-aiuto e miglioramento personale, con più di 50 milioni di followers tra le varie piattaforme social. La sua scalata verso il successo è iniziata nel 2020 con la pubblicazione del suo libro Think Like a Monk, consolidandosi ulteriormente nel 2022, quando ha officiato il matrimonio tra Jennifer Lopez e Ben Affleck ed esplodendo definitivamente con la pubblicazione del suo secondo libro nel 2023 e con il suo podcast, Purpose, uno dei più ascoltati negli Stati Uniti. La storia della propria vita che Shetty racconta non è priva di incongruenze, come evidenziato nell’indagine del giornalista John McDermott pubblicata sul Guardian nel 2024. Shetty sostiene di essersi trasferito in un ashram in India per diverso tempo dopo aver assistito ad una conferenza di Gauranga Das, un monaco parte dell’International Society of Krishna Consciousness, anche se la durata effettiva della sua permanenza e quindi della sua formazione non è mai stata accertata in maniera univoca. Il suo maestro lo avrebbe poi incoraggiato a lasciare l’ashram per diffondere quanto imparato nel mondo e Shetty non ha solo sparso il messaggio ma ci ha costruito sopra un business da diversi milioni di dollari, mescolando gli insegnamenti dei testi Hindu con contenuti generalmente legati alla psicologia pop tipica del self help, distanziandosi quindi fin da subito dall’ideologia del suo maestro. McDermott evidenzia inoltre le criticità legate alla Jay Shetty Certification School, dove si pagano 7.400 dollari a semestre per diventare un consulente di auto-aiuto e che, nonostante venga presentata come un diploma equivalente ad una laurea magistrale, non è riconosciuto da nessuno degli enti ufficiali che Shetty nomina sul sito. Secondo il Guardian, si tratterebbe, presumibilmente, di una struttura simile a quelle degli schemi piramidali in cui chi prende la certificazione è spinto a manipolare le persone che assiste come coach affinché anche loro decidano di diventare coach a loro volta. Ottenendo in definitiva un certificato non riconosciuto per una professione che entra in contatto con persone fragili e in cerca di aiuto e motivazione, che avrebbero spesso bisogno di rivolgersi a psicologi o psichiatri. Per quanto l’auto-aiuto possa sicuramente portare conforto ad alcune persone, si tratta spesso di un imbroglio capitalista per ottimizzarsi e adattarsi al sistema, per diventare sempre più bravi a costruirsi una maschera e diventare impostori di se stessi, quando non anche per acquistare e ‘consumare’ servizi e certificazioni che arricchiscono i guru del settore. Sono anche peculiari le incongruenze di un personaggio con Shetty, che diventa una sorta di impostore nel momento in cui predica una vita monastica in cui rinunciare alla ricchezza e al mondo per vivere con semplicità è il fulcro, trasformandola invece in uno strumento per fare più soldi possibile e per acquisire status e potere.
Secondo Lewis Hyde, autore del celebre saggio Il briccone fa il mondo. Malizia, mito e arte (1998), gli impostori contemporanei hanno perso la funzione e la gravitas dei bricconi di mitologica origine, diventando meri truffatori e con-man in un sistema neoliberista che ha cancellato la dimensione magica, ritualistica e mitologica dal mondo. Il briccone o trickster - notando già la differenza di termine e di significato - è secondo Lewis una figura centrale nella mitologia e nello storytelling di tutte le culture mondiali, come ricostruisce nel suo saggio a partire da Coyote, un briccone diffuso tra diversi gruppi di Nativi americani, passando per Hermes/Mercurio ma comprendendo anche altri personaggi della cultura cinese, di diversi gruppi etnici africani e del Medio Oriente. Il briccone è spesso un vagabondo, la sua figura non ha radici ma è legata alla marginalità, ai territori di confine dove si aprono tutte le strade e le possibilità, al caos che non si può controllare o ordinare ma soltanto cavalcare, proprio come nella vita. Per fame, desiderio o dispetto il trickster va contro l’ordine costituito (magari proprio stabilito da un padre divino, come nel caso di Hermes) per raggiungere i propri scopi truffaldini, ma così facendo finisce spesso per aprire nuove strade o per dare nuovi strumenti e significati all’umanità - di nuovo, nel caso di Hermes, l’attribuzione dell’invenzione dei sacrifici agli dei, oppure nel caso di Prometeo, il dono del fuoco all’umanità. È vero, il briccone mente, ma in fin dei conti le bugie sono storie, le storie (i miti) sono ciò su cui fondiamo le nostre credenze, quindi le bugie che ci (auto)raccontiamo sono tutto ciò che abbiamo. II briccone mitologico, a differenza dell’impostore contemporaneo, è a-morale, non immorale, e i suoi ‘crimini’ non sono mai pienamente tali perché spesso coincidono con geniali invenzioni o con strategie di sopravvivenza di cui l’umanità tutta può beneficiare, oltre che con la centralità dello storytelling, del racconto, come elemento essenziale che ci rende umani. Se nel mondo contemporaneo abbiamo perso completamente la figura del sacro briccone, alcuni cenni di questa attitudine rimangono forse, parzialmente e in forme differenti, solamente nell’arte, in un contesto in cui il performativo può prendere forme diverse e la finzione può davvero svilupparsi in maniera a-morale, o in cui quantomeno ‘giusto’ e ‘sbagliato’ rimangono due categorie porose, ambigue e relative.
Nel 1981, l’artista Sophie Calle si fa assumere come donna delle pulizie in un albergo a Venezia, mentendo sulla sua reale professione e i suoi intenti. In una posizione di invisibilità dovuta al suo ruolo, ma allo stesso tempo con il privilegio di avere un accesso illimitato agli spazi più intimi e privati dell’hotel, Calle fotografa in segreto gli oggetti degli ospiti, frugando tra le loro cose e tra la spazzatura delle camere, ad eccezione dei bagagli lasciati chiusi e senza mai portare via nulla. Il risultato è il progetto The Hotel, pubblicato anche come libro fotografico, che comprende 21 dittici di fotografie accompagnati dalle osservazioni scritte dall’artista. Nei testi, Calle trascrive conversazioni origliate mentre si sposta tra i corridoi dell’albergo per rifare le stanze, prende nota degli oggetti che appartengono agli ospiti e del modo in cui sono disposti o gettati negli spazi, altre volte trascrive lettere e cartoline private ma lasciate in bella vista. Oltre alla forte fascinazione voyeuristica verso le vite degli altri (chi non ha mai curiosato, per esempio, aprendo gli sportelli del bagno quando si va a casa di qualcuno?), il progetto di Calle evidenzia la peculiarità di diventare altro da sé, un impostore, per assumere un ruolo che capovolga la sua normale posizione. Il personale delle pulizie è spesso ignorato, invisibile, tanto negli alberghi quanto negli uffici o nelle case, seppure abbia effettivamente accesso illimitato a spazi intimi e privati come nessun altro può avere, nei momenti più vulnerabili in cui i nostri oggetti e i nostri segreti sono esposti e abbandonati. Le lettere lasciate in bella vista o gli indumenti intimi gettati in giro per la stanza rendono chiaramente l’idea che gli ospiti non pensano a queste figure come persone dotate di curiosità o alla loro presenza fisica nei propri spazi, per questo quando l’artista diventa donna delle pulizie il meccanismo si rompe rivelando tutti i pregiudizi alla base dei ruoli in cui incaselliamo le persone.
Nell’inverno del 1983, l’artista David Hammons srotola un colorato tappeto a righe a Cooper Square a New York, di fianco a diversi venditori ambulanti di vestiti usati e altri oggetti, per vendere palle di neve di diverse dimensioni, ordinatamente disposte per grandezza. L’evento, che non era stato annunciato o pubblicizzato in alcun modo, sarebbe stato riconosciuto solo in seguito come una performance artistica con il nome di Bliz-aard Ball Sale. Con questo gesto tanto semplice quanto peculiare - la visualizzazione quasi letterale del detto ‘riuscirebbe a vendere il ghiaccio anche agli Eschimesi’ - Hammons riesce in realtà a mettere a fuoco alcuni tra gli aspetti più critici del mondo dell’arte contemporanea. Prima tra tutti, la stessa idea dell’artista contemporaneo come impostore, un venditore di fumo, o meglio di oggetti ‘che avrebbe potuto fare chiunque’, privi di un proprio valore intrinseco ma preziosi perché così riconosciuti da un’elite di addetti al lavoro, in un mercato gonfiato e privo di ogni senso logico. Nel 2017, la curatrice Elena Filipovic, in un libro dedicato proprio a ricostruire l’azione Bliz-aard Ball Sale, di cui rimangono altrimenti solo alcune fotografie a colori e poche informazioni sparse, riflette anche sulla presenza di Hammons come persona nera nello spazio pubblico in una società bianca, razzista e piena di pregiudizi, associando per esempio un venditore nero agli stereotipi del vagabondo, di una persona che vive ai margini della società con lavori subalterni se non anche illegali. Filipovic scrive che prendere sul serio Bliz-aard Ball Sale significa riconoscere che l’evento fu concepito proprio per restare ai margini, per scivolarci tra le dita con le sue complessità, per sfuggire tanto alla stretta del mercato, quanto alla necessità della storia dell’arte di rendere i lavori riconoscibili e facilmente incasellabili in un genere. Come lo stesso Hammons le ha detto, “Don’t you know, chasing these stories is what it is?”, Non ti rendi conto che inseguire queste storie è quello che è?
Libri e articoli citati
Zadie Smith, L’impostore, Mondadori
Fake Heiress, serie podcast in 6 puntate di BBC Radio 4 su Anna Delvey/Sorokin
John McDermott, Uncovering the higher truth of Jay Shetty, The Guardian
Lewis Hyde, Trickster makes this world: mischief, myth and art, Canongate Books
The Snowball Effect, Bruce Hainley on Elena Filipovic’s David Hammons: Bliz-aard Ball Sale, Artforum
Appunti
Pensieri, ragionamenti e riflessioni incompiute
Qualche anno fa ho tolto un dente del giudizio e una strana sensazione di vuoto mi ha accompagnata per parecchi giorni dopo l’operazione. Anche adesso se con la lingua accarezzo la gengiva liscia a sinistra mi stupisco del vuoto, della mancanza di equilibrio tra un lato e l’altro della mia bocca. Per la prima volta mi è stato preso dal corpo qualcosa di consistente, qualcosa che non avrebbe potuto ricrescere o riformarsi, come fanno invece i capelli oppure il sangue. Non mi piacciono le cose irrimediabili e fisse, le cose che non si possono cambiare, non mi piace abbandonare piccoli tasselli o frammenti che mi destabilizzano in modi inaspettati e sottili. Non ho voluto conservare il dente dopo l’estrazione, ma ora forse lo rimpiango perché vorrei averlo con me, potrebbe essere un talismano, oppure un simbolo di tutte le mancanze che non ho ancora vissuto e di tutti gli addii che non ho ancora dato.
Le mancanze e gli addii sono piccoli o grandi, ma sempre e comunque difficili da definire, da affrontare e da assimilare. Come si dice addio ad una città con cui ho un rapporto lunghissimo, confuso e stratificato? Ai ricordi, ovunque, in ogni angolo e lungo ogni fermata della metro, tutte le cose fatte, tutte le persone, i luoghi, le sensazioni, le percezioni negli anni, il nucleo di chi sono e sono stata, come si dice addio alla distanza che ho dovuto mettere tra me e tutto questo, ad una distanza che esisteva solo in una tensione e in un movimento che ora spariranno. Come si dice addio ad una città che non mi manca, verso cui non ho il rimpianto di un futuro possibile che non accadrà, ma la nostalgia del passato, gli occhiali con le lenti rosa dell’infanzia. Come si lascia andare un groviglio di sentimenti irrisolti, ora che mi dovrò staccare forzatamente dal luogo che li ha provocati. E ovviamente non c’è solo la città, ma la casa, la casa che per prima ho conosciuto e dove sono cresciuta, forse il luogo che più nel mondo ho dato per scontato e ritenuto immutabile, il posto ancora a me più familiare in assoluto. L’odore, gli oggetti, il modo in cui la luce batte sul muro ad un certo orario, il graffio su una specifica piastrella e l’angolo del soffitto del bagno su cui ogni anno spunta impertinente una macchia di muffa.
Arriva mai il momento in cui si cresce veramente, oppure sono tanti momenti e tutti disseminati da diversi addii che dobbiamo dare? Che sia forse il momento, diverso per ciascuna, in cui lasciamo la casa dei nostri genitori per andare a vivere da sole, o meglio a pagare uno spropositato affitto in una casa condivisa con persone che finiremo per amare alla follia oppure per detestare. Oppure il primo lavoro, quando realizziamo che il tempo per come lo abbiamo conosciuto fino a quel momento non esiste più, che il controllo che abbiamo sui ritmi della nostra vita è molto più sfuggente del previsto e che non basta fingere di avere mal di testa per riappropriarci di una mattina preziosa, quando constatiamo con sconforto che l’estate per come l’abbiamo conosciuta finora è persa per sempre, che c’erano in fondo solo circa venticinque estati e che non si torna più indietro. O forse, ancora, è il momento in cui accettiamo che crescere significa scegliere, scegliere significa escludere, escludere significa imparare ad esistere con la mancanza e il rimpianto, dire addio alle possibilità infinite di essere ed esistere, costruire nel presente con un orizzonte ristretto e non nella tensione verso un futuro enorme e sconosciuto (in questo caso mi sa che sto messa male). Mi rendo conto che per me dire addio ai luoghi della propria infanzia, alle case che hanno segnato la mia vita, è una parte significativa di questo percorso, simboleggiata dagli oggetti di altre case (la casa dei miei genitori, la casa di mio nonno) che ora sono nella mia casa ma che non dovrebbero essere qui. La loro presenza mi ricorda ogni giorno la distanza incolmabile di un luogo, e un tempo, a cui non ho più accesso.
Nell’edizione di giugno della sua newsletter, l’astrologa Alice Sparkly Kat scrive che perdere la propria casa vuol dire perdere il proprio potere, perché le piccole azione quotidiane, le abitudini e i comfort legati alla costruzione della propria casa hanno un impatto molto più solido su ciascuno di noi rispetto alle azioni spontanee e di rottura, di cambiamento. Però parla anche della casa in un modo molto più ampio, non solo come ricordi e come senso di appartenenza, ma anche come stile di vita, come comunità, come connessione con il territorio e senso di prossimità, come qualcosa che si può svincolare e ricostruire. La casa rappresenta il nostro potere perché è tutto quello che sappiamo, è la storia su cui abbiamo costruito e continuiamo a costruire la nostra vita.
Quello che mi frega è la sensazione di familiarità, ogni volta che torno nei ‘miei’ luoghi, la familiarità delle strade, spostarmi senza guardare google maps, ricordarmi tutti i mezzi di trasporto e le vie e i negozi e le connessioni tra le strade, mi mette di cattivo umore sentirmi più insicura a muovermi nella città in cui sto vivendo ora già da anni rispetto che in quelle che ho lasciato, mi frega come basta un giorno per rientrare completamente nella routine di un’altra vita, memoria muscolare. Mi fa infuriare essere tenuta fuori dai posti che ho tanto amato e dove ho vissuto, c’è il visto turistico obbligatorio per il Regno Unito, c’è il ticket di accesso per Venezia per cui mi serve sempre che qualche amic* mi faccia l’esenzione, piccole cose risolvibili che però mi fanno sentire un’outsider, che riempiono lo spazio della mancanza di realtà, e la realtà è che nessuno di questi posti mi appartiene più, e che come mi sento è qualcosa con cui devo in qualche modo fare i conti. La consapevolezza che un giorno, passando davanti alla casa dove ho abitato per diciannove anni e che per un’altra dozzina è stata un luogo fisso e immutabile, non avrò più le chiavi per entrare e per rivedere quelle stanze.
Ho perso già tante cose, tanti posti, tante vite possibili e non possibili, anche tante versioni di me, per esempio a gennaio ho smesso di fumare dopo un abbondante decennio. Smettere di fumare è stato fisicamente difficile, certo, ma è molto più complesso di così. Ho dovuto dire addio ad una versione di me stessa, ad un’immagine di me stessa, un’abitudine, un comfort, una passione, vuoi o non vuoi una parte della mia identità - ma anche la prova che posso fare qualcosa di difficile, che posso e devo dire addio, esistere nello spazio della mancanza.
Ciliegie *
i nostri pick culturali
🍒 Podcast 🍒
Per questo numero due ciliegie in inglese. Le host del podcast Shameless (dal fantastico claim for smart people who love dumb stuff) meditano sulle conseguenze di un mondo in cui non siamo più abituate a problemi ed inconvenienti e su come in futuro gli errori ci distingueranno da chat gtp.
Per chi si interessa all’arte contemporanea, la mitica Andrea Fraser sul podcast The Art Angle di Artnet presenta la sua mappatura del mondo dell’arte con le sue categorie, funzionamenti e sistemi di valori spesso in competizione tra di loro.
🍒 Letture 🍒
Un romanzo: purtroppo non è ancora disponibile la traduzione in italiano e spero ci sia qualche editore in lettura, perché è uno dei libri più incredibili che ho letto negli ultimi anni - It lasts forever and then it’s over di Anne De Marcken. Ambientato dopo la fine del mondo, è un libro che parla della vita e della morte nella loro essenza, di quello che continuiamo ad essere e non-essere quando abbiamo perduto tutto il resto, della fame come desiderio e come rabbia, di quello che succede se la fine non è davvero una fine ma neppure un inizio.
Bonus: Perché sono da sempre un corso d’acqua di Kim de l’Horizon (ed. Il Saggiatore), un romanzo-memoir al confine tra i generi incredibilmente profondo e meditativo sull’identità costruita nella relazione con la propria famiglia, e sulla potenza della scrittura, della parola e delle storie nell’aiutarci a trovare un nostro posto nel mondo.
Un classico: per completare una tripletta di libri davvero splendidi per l’estate, consigliatissimo Gli anni di Annie Ernaux (non so perché io abbia aspettato così tanto a conoscerla ma ora voglio leggere tutto). La biografia di una generazione si intreccia con la vita di Ernaux, con la chiara e incredibile resa su pagina della giustapposizione di personale e collettivo che accompagna il nostro esistere + una miniera di frasi e pensieri preziosi che vi resteranno impressi in testa per molto tempo.
E altri consigli non nostri ma che ci sono piaciuti molto <3
Un articolo: che non è un articolo ma una storia illustrata di Zerocalcare su carcere, vittime (im)perfette e questione di classe ~ “La galera come condizione perpetua per non dover fare i conti con le risposte che non sappiamo dare”
Misc: secchiate ~ “La prima newsletter italiana sul mondo della notte” ~ un articolo su turistificazione e beni comuni di guastafeste e una riflessione sulla ricerca come passatempo
🍒 Musica 🍒
Abbiamo sentito qualche brivido autunnale con il nuovo album de i cani e celebrato la supremazia dei giorgi, ballando con gli ultimi singoli e mix di okgiorgio e contemplando la vita con Schegge di Giorgio Poi. Per una (circa) brat summer parte due c’è Fancy That di PinkPantheress (anche se mannaggia agli audio virali che rovinano sempre tutto).
🍒 L’Internet 🍒
Neocities un sito per fare siti ma che è anche una community e che ci ricorda molto MySpace
Un carosello molto bello e informativo di @ucri_rom_e_sinti e un reel necessario sul perchè non si può lasciare il folklore ai fasci
Un’analisi non banale dello ‘scandalo’ American Eagle
Computer con crisi esistenziali
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Noi siamo arrivate alla fine di questo ventunesimo numero di Interstizi.
Grazie per essere arrivatə fin qui, per averci letto, per averci dedicato del tempo.
Interstizi è in fase di sperimentazione permanente quindi se avete suggerimenti, feedback o volete semplicemente condividere con noi cosa vi passa per la testa potete rispondere a questa mail, seguirci su Instagram o scriverci a interstizinewsletter@gmail.com - se invece sei qui per sbaglio ma vuoi saperne di più puoi iscriverti qui
Interstizi è un progetto a cura di Fabiola Fiocco e Giulia Pistone.





