Benvenutə al quinto numero di Interstizi,
una newsletter occasionale che nasce dal bisogno di mettersi insieme, di condividere riflessioni e pensieri fuori da uno spazio predefinito. Una piattaforma informale di confronto e di ricerca su arte, pop culture e attualità che speriamo possa aprirsi nel tempo a tanti punti di vista e modalità espressive diverse. Uno spazio fisico e mentale per germogliare, condividere quello che ci sta a cuore, raccontare e raccontarsi, trovare la propria voce ma anche lanciarsi in qualche sano rant.
In questo numero ci siamo fatte prendere la mano e abbiamo deciso di provare a realizzare una panoramica dello stato dell’arte del settore culturale italiano ad un anno dal primo lockdown. Senza avere la pretesa di riportare tutte le iniziative, gli eventi e le ordinanze che si sono susseguite nei mesi, ci siamo interrogate su cosa ci dice della percezione del valore sociale dell’arte il trattamento subito dal settore artistico (e non solo) in questo anno. Di seguito potete trovare alcune delle risposte che ci siamo date, ma siamo curiose di sapere anche le vostre.
Buona lettura!
Fabiola & Giulia
Panorama
Scrivere questo pezzo non è stato semplice. Sono giorni in cui stiamo tuttɜ, in un modo o nell’altro, facendo i conti con i ricordi del lockdown nazionale di un anno fa e con una pandemia che ogni volta si conferma essere un incubo sempre più lungo. La confusione regna sovrana e analizzare, seppure informalmente, una situazione che muta di giorno in giorno non è affatto semplice. Da qualche anno operiamo entrambe nel mondo dell’arte contemporanea (con tutti gli sconfinamenti del caso, perché bisogna pur sempre pagare le bollette) e in modi a volte simili, a volte lontani, ci siamo sempre relazionate in modo critico e militante con questo ambito. Per questo motivo, abbiamo sentito la necessità di utilizzare questo spazio per riflettere su quanto sta accadendo nel settore artistico.
Da un anno a questa parte, musei, cinema e teatri fanno periodicamente capolinea sui media tradizionali, in modo piuttosto discontinuo e senza che venga avviato un vero dibattito, capace di andare oltre il ‘tenere aperto’ vs. ‘tenere chiuso’. Allo stesso tempo, ripercorrere la storia recente di questi luoghi e cercare di dare un senso a decisioni e reazioni, ci ha lasciato una sensazione molto diversa da quello che di solito proviamo scrivendo questa newsletter: siamo rimaste un po’ esauste, un po’ prosciugate, non con la solita scarica di energia ed entusiasmo che lavorare a questo progetto ci da. Abbiamo comunque perseverato, perché ci è sembrato importante condividere con voi le nostre riflessioni e polemichette e fare noi stesse chiarezza sul posto del mondo della cultura nella nostra contemporaneità.
Nel corso della lettura potrete notare come molti dati e riflessioni facciano riferimento all’istituzione museale. Questa scelta non è stata dettata da una gerarchia tra luoghi della cultura, ma unicamente dalla maggiore presenza di dati pubblicamente reperibili. Siamo però consapevoli del fatto che la crisi prodotta dal Covid-19 andrà ad impattare ancora di più sull’attività e sulle risorse a disposizione dei numerosi spazi indipendenti, centri di ricerca, artist-run spaces e collettivi, già poco sostenuti dalle politiche governative nazionali e regionali. Un ultimo disclaimer, siamo consapevoli di non aver approfondito la questione cinema, teatro e mondo dello spettacolo dal vivo come questa meriterebbe, ma abbiamo scelto di concentrarci su quello che conosciamo meglio attraverso le nostre esperienze personali.
antefatto: aprire o non aprire, questo è il dilemma
Marzo 2020, primo lockdown nazionale a cui tuttɜ abbiamo assistito, almeno all’inizio, con incredulità. La chiusura di moltissime attività classificate come ‘non essenziali’ ha interessato anche musei e luoghi della cultura, che hanno poi gradualmente riaperto in estate, in parallelo con l’allentamento delle misure di contenimento dell’epidemia e godendo della lieve ripresa portata da bassi contagi e parziale movimento durante le vacanze. Se all’inizio queste attività hanno seguito un iter che non si è discostato da quello di negozi o ristoranti, una situazione di inspiegata eccezionalità dei luoghi della cultura è emersa con la seconda ondata dell’epidemia e l’introduzione delle zone a colori in autunno. Musei, cinema e teatri sono rimasti chiusi anche in zona gialla, mentre ad altre attività è stato consentito di continuare ad operare, quantomeno con orari ridotti. Questa decisione ha portato a proteste da parte di moltɜ operatorɜ del settore culturale - soprattutto tra lɜ lavoratorɜ dello spettacolo - così come di celebrità e direttorɜ di musei, che avrebbero voluto tenere aperti almeno gli spazi espositivi, seguendo le misure di contingentamento già messe a punto durante l’estate. «Perché i negozi si, e i musei no?» è forse la frase che può riassumere più sinteticamente questo momento. Altrɜ hanno commentato sul fatto che, senza turisti e con ingressi limitati, molte istituzioni culturali non avrebbero potuto permettersi di riaprire, perché non sarebbero riuscite a coprire i costi. Il dibattito pubblico si è spento quasi sul nascere, senza che chiare motivazioni fossero comunicate per giustificare le chiusure e senza l’approvazione di ulteriori aiuti per lɜ lavoratorɜ della cultura, per mesi tagliatɜ fuori da qualsiasi fonte di reddito - partite IVA, contratti a chiamata e tutto il frastagliato mondo del precariato che caratterizza una gran parte di questa forza lavoro. Ma di questo parleremo meglio più avanti.
In questi mesi in cui abbiamo lavorato alla newsletter, ci siamo interrogate spesso sulle ragioni di tale rigidità, che sembra estranea a tutti gli altri ambiti della società, e che non si limita all’Italia ma è comune alla maggior parte dei Paesi - QUI una mappa realizzata dal Network of European Museum Organisations (NEMO) per capire a che punto si trovano i diversi musei in Europa. Non abbiamo però trovato nessuna vera motivazione e, per il contesto italiano, il Ministero non ha chiarito le ragioni dietro la scelta di tenere chiuso, mentre attività anche più ‘rischiose’ restavano aperte. Tanto che, solo un paio di mesi dopo e con una situazione in rapido peggioramento a causa dell’inizio della diffusione delle varianti del Covid-19, i musei hanno improvvisamente potuto riaprire in zona gialla. Oltre agli ingressi limitati, l’orario degli spazi espositivi è stato limitato dal lunedì al venerdì, con la vaga spiegazione che i musei dovrebbero principalmente offrire un servizio ai residenti locali. Inoltre, a distanza di qualche settimana e in una situazione epidemiologica sempre più drammatica, il nuovo governo ha addirittura annunciato un ‘cambio di passo’, con la possibile riapertura non solo dei musei nei fine settimana, ma anche di cinema e teatri. Decisione che, a fronte di quanto sta succedendo e di un’Italia prevedibilmente più rossa, è sembrata fin dall’inizio insensata e dettata più dalla politica che dalla logica. O forse dalla performatività.
Tra mondo dell’arte e mondo reale c’è un gap spesso difficile da colmare. Sui media ufficiali, i luoghi della cultura e dello spettacolo sono stati all’inizio completamente ignorati e quando, con le chiusure dell’autunno anche in zona gialla, si è iniziato a parlarne, il dibattito (se così possiamo chiamarlo) ha avuto praticamente un unico tema: tenere chiuso vs. tenere aperto.
La fazione politica del ‘tenere aperto’, a nostro parere, ha usato argomenti spesso vaghi, senza davvero riflettere sul ruolo della cultura durante una pandemia e sull’inadeguatezza di tanti contenuti digitali (e cosa invece si potrebbe fare). Un altro argomento di solito ignorato da politici o personaggi pubblici che premono per l’apertura a tutti i costi è il fatto che siamo effettivamente alla prese con un’emergenza sanitaria che non ha veri precedenti in tempi recenti e che sono necessarie misure di contenimento, checché ne dicano Salvini e teorici del complotto vari. Dal canto suo, quella del ‘tenere chiuso’ non è sempre riuscita a comunicare con chiarezza l’urgenza o le motivazioni alla base della necessità delle chiusure e la sua posizione sulla partecipazione come diritto culturale inalienabile. L’enorme problema, in ogni caso, rimane il fatto che il governo (quello vecchio e, stando ai fatti attuali, anche quello nuovo) non è stato capace di varare misure economiche rapide ed efficienti, che rendessero le chiusure effettivamente praticabili per i settori colpiti. Solo in questi giorni, per fare un esempio tra molti, il Ministero della Cultura ha annunciato un sussidio di 2400 euro per i lavoratori dello spettacolo, una tantum e a più di un anno dall’inizio della pandemia. Non ci sono quasi parole per commentare l’inadeguatezza di risposte come questa.
Non siamo medici o virologhe e non possiamo pertanto esprimere un parere davvero informato su cosa sia giusto fare: aprire o chiudere. Nell’arco di un anno le nostre stesse posizioni sono cambiate spesso, sia a seguito dell’evolversi della pandemia, sia a seguito di esperienze personali che ci hanno permesso di mettere a fuoco diverse questioni e assumere anche punti di vista altri rispetto al nostro. Quello che sappiamo, però, è che la mancanza di pianificazione e di un appropriato supporto economico non ha permesso di portare il discorso fuori da questo stato di urgenza continua e di alzare il livello del dibattito. È complesso quando non impossibile riuscire a discutere obiettivamente e in modo disinteressato di quale sia ‘la cosa giusta’ da fare quando la nostra stessa sopravvivenza è compromessa.
una repubblica fondata sul lavoro precario
Uno degli effetti della pandemia, forse tra i più importanti, è stato metterci davanti all’insostenibilità del mondo del lavoro - artistico e non. Travoltɜ dalla chiusura delle attività ‘non essenziali’ – una definizione che richiederebbe una riflessione a parte – ci siamo trovatɜ a chiederci quanta normalità e dignità ci fosse nella nostra vita lavorativa di tutti i giorni [spoiler: nessuna]. Molte persone hanno perso il lavoro, trovandosi improvvisamente prive di tutele e supporto e impossibilitate ad accedere a quei pochi aiuti offerti dallo Stato. Altre sono passate al lavoro da remoto, in una condizione di reperibilità continua [l’Anti-video chat manifesto di Michelle Kasprzak ci sembra dia un’idea della situazione]. Altre ancora hanno invece dovuto avviare piccole o grandi battaglie con superiori e colleghɜ per far valere il proprio diritto alla salute davanti a decisioni o comportamenti individualisti e irragionevoli.
I dati raccolti dall’ICOM (International Council of Museums), associazione di categoria internazionale, ci permettono di avere una fotografia abbastanza chiara del settore museale e ci raccontano di una situazione che è andata sempre più peggiorando con il progredire della pandemia. Un’indagine condotta nel Maggio 2020 ci presenta un quadro relativamente stabile per quanto riguarda lɜ dipendenti a tempo indeterminato, con circa il 6% dei contratti terminati o non rinnovati. Percentuale che viene quasi triplicata nel follow-up realizzato a novembre, solo sei mesi dopo. Inoltre, la situazione è ancora più critica per lɜ professionistɜ museali freelance, che in più del 30% dei casi hanno visto le loro collaborazioni interrotte o sospese. Alla riduzione delle attività e delle entrate economiche, è corrisposto per circa il 31% dei musei analizzati un taglio significativo all’organico, reso ancora più facile dalla mancanza di contratti e tutele per molti dellɜ lavoratorɜ. Diverse istituzioni culturali sono entrate nell’occhio del ciclone per aver licenziato decine di dipendenti, soprattutto in Inghilterra e Stati Uniti, ma anche in Italia il lavoro culturale ha finalmente iniziato ad apparire nel discorso pubblico, seppur con minore attenzione rispetto a quella riservata a settori come quello della ristorazione e del turismo. La politica si è dimostrata poco ricettiva, evitando a tutto tondo di trovare una soluzione davvero efficace per l’universo precario di partite IVA, cocopro, contratti a chiamata e via dicendo su cui si regge buona parte del mondo dell’arte e dello spettacolo.
Ci preme inoltre fare qui una breve parentesi riguardo un fenomeno che soprattutto durante il primo lockdown ha messo in luce un’importante contraddizione. Diversɜ artistɜ, spesso dietro richiesta di organizzazioni private, hanno scelto di donare i propri lavori per campagne di raccolta fondi destinate a supportare sia la società civile, sia la stessa comunità artistica. Pur riconoscendo il grande valore di queste iniziative e le differenze abissali che intercorrono di caso in caso - tanto che noi per prima abbiamo appoggiato e appoggiamo alcune di queste iniziative e anzi già che ci siamo vi segnaliamo l’asta di questa sera (02/02/21) a sostegno del Comitato No Grandi Navi di Venezia - ci sembra giusto evidenziare come l’auto-organizzazione sia dovuta nuovamente intervenire lì dove lo Stato è assente e come allɜ artistɜ venga ancora richiesto di assumersi i costi che queste azioni comportano, rimarcando la percezione per cui l’arte non sia un vero lavoro e le relative aspettative di gratuità.
Questa situazione di estrema precarietà ha portato nel mondo della cultura un rinnovato interesse per il tema del lavoro, aprendo nuovi spazi di confronto e conflitto. In tutto il mondo sono nati collettivi e associazioni, un segno importante in un settore come quello artistico in cui storicamente la frammentazione e individualizzazione del lavoro ha reso molto più complicato riuscire a sviluppare una coscienza di classe condivisa. In un articolo su artnet, Catherine Wagley scriveva già alla fine dello scorso anno di come negli Stati Uniti diversɜ lavoratorɜ dell’arte avessero cominciato a denunciare i loro datori di lavoro e le istituzioni in modo anonimo sui social media. In Italia, Art Workers Italia (AWI), associazione autonoma e apartitica nata durante i primi mesi del lockdown di cui vi abbiamo già parlato nel primo numero di Interstizi, si è attivata su più fronti, sia cercando di avviare un dialogo con le istituzioni, come nel caso della lettera privata inviata all’On. Dario Franceschini, Ministro della Cultura, e al Prof. Lorenzo Casini, Capo di Gabinetto, sia portando avanti progetti autonomi di ricerca e divulgazione. Esemplare è il progetto Hyperunionisation, una piattaforma online per la promozione di una rete transnazionale di gruppi e organizzazioni che si occupano dei diritti dellɜ lavoratorɜ, supportato dalla European Cultural Foundation e con il patrocinio di SMART (Société Mutuelle pour Artistes) e nell’ambito del quale sono state organizzate nel mese di dicembre tre tavole rotonde - How to Strike, How to Institute e How to Get Paid - in cui organizzazioni, sindacati e professionistɜ hanno condiviso istanze, esperienze, ma soprattutto strumenti e strategie. È inoltre di questi giorni la notizia dell’occupazione del Piccolo Teatro Grassi nel centro di Milano da parte dellɜ lavoratorɜ dello spettacolo, che segue le mobilitazioni portate avanti nelle ultime settimane in Francia. Mentre il 27 marzo a Torino, Milano, Venezia e Roma sono state organizzate manifestazioni di piazza su scala nazionale dallɜ Lavoratorɜ e Maestranze dello Spettacolo. Un altro esempio interessante è L’Union des Refusés, un gruppo di discussione e azione transnazionale promosso da Arts of the Working Class e basato sulla metodologia dell’hologram sviluppata dall’artista Cassie Thornton sulla base delle cliniche sociali greche. Infine, vogliamo segnalare la proposta dell’Institute of Radical Imagination di un reddito universale di base, tema che sia all’interno che all’esterno del mondo dell’arte ha acquisito in questa fase una nuova forza e rilevanza.
È ormai generalmente riconosciuto il ruolo che la figura dell’artista e in generale del lavoratorɜ culturale ha avuto nella riorganizzazione del lavoro nell’era Post-Fordista, caratterizzata da una sempre maggiore flessibilità, precarietà e mobilità. Allo stesso modo, lɜ lavoratorɜ dell’arte possono svolgere un ruolo centrale nello sviluppo di forme nuove di organizzazione e produzione.
digital love
A dicembre 2020, il Ministero della Cultura annunciava di aver selezionato la piattaforma digitale privata Chili come partner per “veicolare l’offerta culturale nel nostro Paese”, creando “un Netflix della cultura italiana e una digital library nazionale”. La nuova piattaforma streaming a pagamento, chiamata con grande originalità ITSART, avrà il 51% di partecipazione pubblica e il 49% in mano a Chili, attingendo a 10 milioni di euro del Recovery Fund. Questa proposta ci ha lasciate un po’ perplesse - per non dire di peggio - trattandosi di uno tra i primissimi annunci del MiC sugli investimenti per il futuro del mondo della cultura e in particolare del mondo dello spettacolo dal vivo, uno tra i più duramente colpiti dalla pandemia. A fronte di mesi in cui la nostra vita e il nostro ‘consumo culturale’ si sono del tutto digitalizzati, ci siamo chieste: perché digitale continua, automaticamente, a voler dire accessibile?
Ma facciamo un passo indietro. Durante il primo periodo di lockdown, musei e istituzioni della cultura e dello spettacolo hanno risposto alle chiusure puntando tutto sulla produzione, più o meno ragionata, di contenuti online: webinar, instagram live, interventi di artistɜ e curatorɜ, laboratori didattici, tour virtuali delle mostre, cataloghi di intere cineteche resi accessibili, spettacoli teatrali online e chi più ne ha, più ne metta. L’impressione iniziale è stata quella di essere sommerse da contenuti, in un periodo in cui moltɜ di noi si sentivano già sommersi dalla vita. Il concetto di ‘digital fatigue’, discusso in ambienti accademici già da qualche anno, è tornato alla ribalta, spesso reso più 2020 dall’idea di ‘zoom fatigue’. Sebbene la tecnologia sia spesso percepita come uno strumento per fare di più, in minor tempo e con meno dispendio di energia fisica, diversi studi ci indicano invece che anche un’esistenza vissuta perlopiù online ha come risultato una sensazione molto corporea di stanchezza e di fatica. Un sovraccarico mentale che influisce sulla nostra forma fisica.
Nel settore della cultura, e in un paese come l’Italia, il digitale è da alcunɜ stato visto come accessorio, utilizzato principalmente per la comunicazione e spesso esternalizzato oppure affidato a tirocinanti che creano contenuti gratuitamente, con pochi mezzi e senza poter dare una continuità al loro lavoro, per via di contratti brevi e precari. La pandemia, con la necessità di dirottare tutte le propria attività online e di ‘esserci’, ha colto tuttɜ di sorpresa. A volte, questo è risultato evidente nella qualità raffazzonata di alcuni dei contenuti prodotti: immagini tremolanti, audio cattivo, problemi tecnici… in breve, proposte poco accattivanti. Il che è un peccato, perché la produzione e diffusione di contenuti online di qualità potrebbe essere un buon modo di moltiplicare le occasioni di dialogo e di approcciarsi ad un pubblico che normalmente non visita i musei, spesso perché in soggezione, per la paura di non capire, di fare brutta figura e di sentirsi a disagio in uno spazio che non sente come rassicurante e a propria misura. La percezione di arte e cultura come ambiti elitari, incomprensibili, snob e giudicanti è infatti una delle principali barriere alla partecipazione di nuovi pubblici, soprattutto in Italia dove l’educazione all’arte è ancora legata ad una visione anacronistica e romantica dell’artista-genio. In questo senso, la resistenza al digitale è motivata dunque non solo da una poca conoscenza del mezzo, ma da una serie di pregiudizi ben più radicati. Sembra quindi una buona idea quella di iniziare a mettersi al passo con i tempi, sfruttando gli strumenti della comunicazione digitale e figure professionali specializzate per abbattere le forti barriere di accesso del settore e studiare modi per rendersi più accessibili e far sentire la propria presenza e apertura soprattutto ai pubblici locali e in un’ottica che vada oltre i numeri ed il consumo.
Bisogna però sottolineare che pur ponendo opportunità interessanti per il mondo della culture, digitale non significa automaticamente accessibile. Se allarghiamo un po’ lo sguardo, infatti, la supremazia del digitale ha anche evidenziato problematiche e disparità importanti. Uno studio dell’Unesco ha riscontrato un divario significativo negli investimenti e nell’utilizzo delle tecnologie informatiche tra i musei dei diversi Paesi del mondo, dato dalla mancanza di infrastrutture e di personale formato. Non tutte le istituzioni hanno a disposizione sufficienti fondi per campagne di digitalizzazione degli archivi e delle collezioni e questo fattore ha determinato per molti l’impossibilità di pensare ad una strategia di comunicazione e ad un’offerta digitale adeguata a fronte delle restrizioni. Come accade già nell’offline, anche in questo caso i “grandi musei”, in termini di risorse e numero di visitatori, hanno visto un sostanziale aumento del numero di visitatori alle loro piattaforme web. Molti hanno utilizzato il lavoro di digitalizzazione dei materiali già realizzato, portando online la collezione e sfruttando piattaforme già in uso come Google Arts & Culture e Instagram (abbiamo sicuramente visto almeno qualcuno dei nostri contatti cercare di riprodurre il quadro di turno in una foto da condividere con l’hashtag di rito). Altri hanno scelto di spostare la programmazione esistente dall’offline all’online, puntando sul lavoro di mediazione e lo storytelling. Il vuoto degli spazi espositivi è diventato un’opportunità per offrire nuovi punti di vista sulle opere o “aperitivi con il curatore” come la Frick Collection di New York (o un caffè, come alla Fondazione Modena Arti Visive). Poche istituzioni hanno scelto invece di sviluppare progetti originali, come l’Ashmolean Museum di Oxford o il MET di New York che hanno presentato la propria collezione permanente riproducendola all’interno del videogioco Animal Crossing. Un’idea lontana dai contenuti social tradizionali e che richiede una maggiore quantità di risorse e professionalità più integrate all’interno dello staff. Pur rappresentando esperimenti estremamente stimolanti, tutte queste esperienze hanno in comune l’attenzione per l’intrattenimento del visitatorə, entità che deve essere distratta ed alleggerita in un momento di stress. Una visione più che legittima e auspicabile ma che rilega nuovamente la cultura a distrazione superficiale, a qualcosa che deve farci divertire (Conte cit.). Un discorso diverso deve essere fatto invece per ciò che riguarda i programmi per i bambini, che hanno dimostrato la maturità e l’esperienza dei dipartimenti educativi, spesso non trattati con la giusta attenzione e stima. Giochi, storie, sfide e attività indirizzate non solo ai più piccoli ma pensate in un’ottica di solidarietà e supporto per i genitori in un momento così complesso. Tra gli esempi più recenti, il progetto Forza scuole - Arrivano gli Uffizi in cui la Galleria degli Uffizi si mette a disposizione delle scuole offrendo lezioni gratuite per potenziare la didattica a distanza.
nuovi inizi
Nel corso degli ultimi decenni, in parallelo ai massicci tagli ai fondi destinati alla cultura, si è affermata l’idea di un museo come ‘impresa culturale’: puntare alla quantità di visitatori più che alla qualità e alla continuità del rapporto stabilito con loro; individuare nei turisti il perfetto target di consumatori delle offerte culturali; produrre e ospitare grandi mostre itineranti - le famose mostre blockbuster - capaci di attirare grandi folle e generare entrate (le più recenti ‘Experiences’ sono un buon esempio); o, ancora, puntare su grandi eventi periodici come biennali o festival, mobilitando pubblico internazionale e grandi sponsor. Quando l’operatività di un museo è rivolta principalmente verso queste attività, si trascura il contatto con il territorio e l’effettiva importanza dell’istituzione culturale pubblica come luogo in cui precisi diritti vengono esercitati: il diritto alla cultura e all’istruzione. Ci troviamo inoltre davanti a istituzioni che hanno sempre più bisogno di fattori esterni per poter andare avanti: la presenza di turisti e la possibilità di organizzare grandi eventi. Se queste condizioni vengono a mancare, come successo a causa della pandemia, ecco che i musei entrano in crisi.
Alcune istituzioni hanno colto l’occasione di ripensare alle proprie funzioni e ai propri pubblici. A Bologna, il MAMBo ha creato il Nuovo Forno del Pane, fornendo gli spazi normalmente utilizzati per la mostre temporanee ad artistɜ operanti sul territorio e selezionatɜ tramite bando. Portare la ricerca e la produzione di arte e cultura contemporanea all’interno del museo è un’operazione non scontata, che sovverte l’idea di questi luoghi come sedi di conservazione e contemplazione, rendendoli non solo più dinamici, ma anche capaci di fornire un sostegno concreto allɜ artistɜ in difficoltà, soprattutto lɜ più giovanɜ. Lɜ 13 artistɜ selezionatɜ hanno anche avuto modo di creare una vera e propria comunità e di fare rete in un momento storico in cui le relazioni personali e professionali sono state messe a dura prova. A Reggio Emilia, invece, musei e luoghi della cultura sono diventati parte di un progetto sperimentale di scuola diffusa: gli istituti scolastici del territorio stanno utilizzando questi luoghi come spazi aggiuntivi per rendere più semplice il distanziamento dellɜ alunnɜ. Allo stesso tempo, bambinɜ e ragazzɜ riescono a vivere i musei come luoghi familiari, che fanno parte della loro quotidianità, in un momento in cui le scuole si sono dovute chiudere su se stesse, sospendendo molte iniziative, uscite e percorsi didattici che arricchiscono e completano l’istruzione da esse fornita.
Altre istituzioni si sono reinventate in modalità più provvisorie, mettendo temporaneamente da parte la loro operatività e rispondendo a bisogni pressanti della comunità. Durante la prima ondata di Covid-19, nella primavera del 2020, le Officine Grandi Riparazioni (OGR) di Torino hanno messo a disposizione i propri spazi per creare un ospedale per i malati affetti dal virus mentre oltre oceano il Queens Museum di New York è diventato un banco alimentare per la comunità. Di recente, invece, diversi musei italiani si sono resi disponibili come hub per la somministrazione di vaccini.
Essere ottimisti? Chissà.
L’UNESCO stima che del 90% dei musei che sono stati chiusi nel mondo durante il primo lockdown, il 10% potrebbe non riaprire più nel prossimo futuro. L'impatto della crisi sulle istituzioni culturali e sul settore artistico mondiale richiede un approccio condiviso e coordinato che riaffermi il ruolo ed il valore dell’ecosistema culturale all’interno del tessuto sociale e politico. In occasione della prima riapertura di maggio 2020, ICOM Italia aveva tirato le somme dichiarando: «i musei dovranno dimostrare di essere dei riferimenti ineludibili per le comunità di prossimità, non solo custodi di tesori artistici e testimoni di memorie, ma soggetti attivi in grado di incidere sul miglioramento del benessere delle persone.» Una dichiarazione che è stata subito smentita dagli eventi.
Abbiamo quindi provato a chiederci, come ripensare istituzioni culturali che possano davvero fare da riferimento per le comunità locali? Domanda che ci sembra particolarmente rilevante qui in Italia, dove i musei appaiono talvolta come poco più che un’appendice dell’industria del turismo globale. Pensiamo che i musei potrebbero provare a offrire servizi che siano rivolti esclusivamente al territorio, non solo servizi educativi, ma anche servizi di doposcuola in collaborazione con istituti scolastici e associazioni già esistenti sui territori. Prendendo spunto dal MaMBO, più musei potrebbero dedicare parte dei propri spazi e delle proprie risorse per supportare lɜ artistɜ, diventando luoghi di ricerca e produzione e non solo di conservazione. Ripensare gli interventi digitali, puntando ad una maggiore inclusività e qualità dei contenuti proposti ci sembra un’altra strada molto importante da percorrere. I luoghi della cultura, una volta passato il peggio, potrebbero diventare luoghi di socialità sicura anche con interventi mirati da parte del Ministero e appropriati sussidi, volti anche a riformare le attuali condizioni lavorative di troppi operatori del settore. Un vero ‘cambio di passo’ - come va di moda dire ultimamente - che vada al di là di una inutile performatività ma che sia in grado di portare reali cambiamenti.
L’esperienza del Covid-19 ha messo in discussione una serie di consuetudini che sembravano incrollabili, come l’ossessione per la quantificazione di spettatori e visitatori quale misura del successo, la tendenza al cripticismo come strumento di costruzione identitaria o l’economia del grande evento. In occasione dell’ultima edizione di Ro.Me Monument Exhibition, fiera internazionale sui musei che si tiene da qualche anno a Roma e che quest’anno ha avuto luogo interamente online, si è stimato che bisognerà aspettare almeno fino al 2023 perché possa riprendere anche il mercato delle mostre blockbuster. Ma ne sentiamo davvero la mancanza?
Vetrina
Nel 2004 l’artista americana Martha Rosler realizza House Beautiful: Bringing the War Home, New Series, una serie di fotomontaggi che, come racconta il titolo, porta letteralmente guerre lontane dentro le nostre case. Frammenti tratti dall’immaginario della pubblicità incontrano scene di guerra, in questo caso tratte dal drammatico conflitto iniziato dagli Stati Uniti contro l’Iraq nel 2003. La tecnica del collage permetta all’artista di creare sovrapposizioni impossibili, drammatiche ed estreme, creando un linguaggio visivo immediato e fortemente politicizzato.
Ciliegie
i nostri pick culturali
🍒 Podcast 🍒
Réclame, podcast sul mondo della pubblicità - anche per non addetti ai lavori - realizzato da Chiara Galeazzi e Tania Loschi
🍒 Letture 🍒
Un romanzo: Miranda July, The First Bad Man, Scribner Book Company, 2015.Uno dei libri più surreali, genuinamente strano, ma allo stesso tempo profondamente vero che ho mai letto. Purtroppo manca ancora la traduzione in italiano :(
Un articolo: Wear a Mask, Become Invisible + bonus: Why we tolerate the artworld’s bullshit ~ una sorta di sindrome di Stoccolma
Misc: NEW COLUMN! THE BLISS OF THE SPAM » Arts of the Working Class, nuova rubrica di Arts of the Working Class
🍒 Musica 🍒
Se siete ancora in hangover sanremese, vi consigliamo il nuovo album di Francesca Michielin. Altrimenti è uscito Collapsed In Sunbeams di Arlo Parks.
🍒 Video 🍒
Puck's Supernatural Planet è il nuovo canale YouTube dell’artista Puck Verkade, nonché una sorta di bellissima terapia <3
Preserving Worlds su Means TV, il primo servizio di streaming post-capitalista di proprietà dei lavoratori ~ sembra promettente
🍒 L’Internet 🍒
Thought Detox ~ il termine di solito detox non ci piace, ma per questa volta lasciamo correre
ORACOLO: LA RIVOLUZIONE DELLE DONNE con Maria Edgarda 'Eddi' Marcucci
Shereene Idriss è diventata la nostra dermatologa preferita con il suo approccio no bullshit alla cura della pelle <3
Fa sorridere, ma anche riflettere.Mentra questa fa sorridere e basta.Ultimo, promesso.
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Noi siamo arrivate alla fine di questo quinto numero di Interstizi.
Grazie per essere arrivatə fin qui, per averci letto, per averci dedicato del tempo.
Interstizi è in fase di sperimentazione totale quindi se avete suggerimenti, feedback o volete semplicemente condividere con noi cosa vi passa per la testa potete rispondere a questa mail, seguirci su Instagram o scriverci a interstizinewsletter@gmail.com - se invece sei qui per sbaglio ma vuoi saperne di più puoi iscriverti qui
Interstizi è un progetto a cura di Fabiola Fiocco e Giulia Pistone.
A presto!