Benvenutə al settimo numero di Interstizi,
una newsletter occasionale che nasce dal bisogno di mettersi insieme, di condividere riflessioni e pensieri fuori da uno spazio predefinito. Una piattaforma informale di confronto e di ricerca su arte, pop culture e attualità che speriamo possa aprirsi nel tempo a tanti punti di vista e modalità espressive diverse. Uno spazio fisico e mentale per germogliare, condividere quello che ci sta a cuore, raccontare e raccontarsi, trovare la propria voce ma anche lanciarsi in qualche sano rant.
In questo numero parliamo di aeroporti, tra euforia del viaggio, ricordi di infanzia e realtà – dlin dlon ultima chiamata per turismo di massa, precarietà, cambiamento climatico e globalizzazione. Vi condividiamo le nostre cartoline da questa estate (italiana) che si sta rivelando particolarmente intensa e vi lasciamo raccontandovi del lavoro di Lina Lapelytė e con delle ciliegie davvero juicy, tantissimi consigli da ascoltare e leggere sotto l’ombrellone ⛱️
Buona lettura! 🌿
Fabiola & Giulia
Panorama
‘Ode’ agli aeroporti
Ho sempre amato gli aerei e gli aeroporti. Con la famiglia divisa tra nord e sud Italia, ogni vacanza estiva e natalizia ha per me coinciso fin dalla primissima infanzia con un viaggio in aereo. L’euforia del tempo libero, l’aspettativa di vedere le persone a me care, lo spirito di avventura (diverse volte ho viaggiato da sola, accompagnata dalla hostess e sentendomi un vero adultoTM) hanno creato in me un groviglio emotivo attorno ad aerei e aeroporti. Gli stessi oggetti collegati al viaggio in aereo - i bicchierini di plastica dura per il thé o il succo di frutta, gli snack in miniatura, le coperte di pile brandizzate (sì, quando esistevano solo le compagnie di bandiera volare era sinonimo di pasti e gadget gratis più che di pagare anche l’aria respirata) - avevano per me una fascinazione speciale. Gli aeroporti, con i loro pavimenti scintillanti, le grandi finestre con vista sulla pista di decollo, i negozi in miniatura ma perfettamente allestiti e le boccette di profumo e cosmetici ovunque, mi sembravano luoghi allegri, sicuri e confortevoli. L’associazione tra aeroporto-vacanze-vedere la famiglia lontana ha sedimentato in me una sensazione di benessere che neppure le code ai controlli di sicurezza e i viaggi stressanti per arrivare al terminal con il giusto anticipo riescono a scalfire del tutto. Allo stesso tempo, negli ultimi anni, la consapevolezza dell’impatto ambientale dei viaggi aerei e la percezione sempre più fastidiosa di un consumismo sfrenato collegato ad aeroporti e turismo di massa, hanno iniziato a lasciarmi un gusto sempre più amaro in bocca. Nel groviglio di contraddizioni che è anche quello di una vita all’interno del sistema neoliberista, anche questa ode agli aeroporti soffre di una certa dissonanza cognitiva.
Generazione Easy Jet
Non ricordo esattamente se fosse il 2004 o il 2005, ma la prima volta che sono andata a Londra con la mia famiglia ha coinciso con il mio primo viaggio con Ryanair. All’epoca, la compagnia aerea si stava espandendo in tutta Europa e offriva voli al prezzo di 0.99 centesimi, più tasse aeroportuali. Sembrava un miracolo, ed era l’inizio di una grande democratizzazione del viaggio perché tutti (o quasi, e su questo torneremo verso la fine dell’articolo) ora possono permettersi di acquistare un volo. Questo fenomeno avrebbe però anche portato alla luce una serie di problematiche interconnesse, cambiando per sempre viaggi e turismo di massa. Se inizialmente le compagnie low cost servivano poche rotte e atterravano in aeroporti secondari, lontanissimi dal centro città e ancora mal collegati, nel giro di pochi anni la situazione si sarebbe completamente ribaltata, relegando le compagnie di bandiera ad una posizione subalterna e monopolizzando interi terminal degli scali aeroportuali più centrali, tra cui Heathrow ma anche Milano Malpensa. Al livello del consumatore, improvvisamente è diventato più economico fare un weekend a Barcellona rispetto che prendere un treno per Roma e milioni di persone ne hanno approfittato. Secondo una ricerca dell’Università di Zagabria, solo nel 2004 (l’anno in cui probabilmente sono andata a Londra con Ryanair) il traffico aereo europeo è aumentato dell’80% rispetto all’anno precedente. Anche gli aerei utilizzati da queste compagnie sono notoriamente più scomodi: modelli Boeing progettati per ospitare 148 passeggeri al posto di 128, spazi ridotti per i bagagli a mano con conseguente spesa aggiuntiva, nessun servizio offerto se non il volo di per sé. Ma quando si può viaggiare spendendo di meno, siamo dispostə a rinunciare a qualche comfort.
Nel 2013 EasyJet ha lanciato una famosa campagna di marketing coniando il termine ‘Generazione EasyJet’. Le immagini sembrano riprese al tramonto, con una luce dorata e diffusa che illumina ragazzi che prendono il sole, si tuffano nel mare o vivono altre incredibili avventure. The I can’t wait generation. The everyone doing it their way generation, The more places, more choices, more often generation - La generazione ‘non posso aspettare’. La generazione che fa le cose a modo proprio. La generazione che vuole più luoghi, più scelte, più spesso, si legge, tra altri slogan, su uno dei manifesti pubblicitari. Retorico, certo, melenso, sicuramente. Eppure mi sono sentita esattamente così - libera, con la mia vita saldamente tra le mani, felice e indipendente - proprio su un aereo di EasyJet, diretta verso un weekend fuori porta oppure a trovare qualche amicə all’estero. Vogliamo tuttə sempre un po’ scappare dalle nostre vite.
Fin’ora le compagnie low cost hanno spesso scelto i millennials come segmento target per il loro marketing. Si tratta sicuramente di una fascia di clienti particolarmente affezionata (secondo alcuni articoli, la fascia che ha continuato a viaggiare di più anche durante la pandemia, approfittando di prezzi ancora più scontati o addirittura dei ‘flights to nowhere’, voli senza destinazione con partenza e arrivo nello stesso aeroporto, per tenere attive le flotte di aerei e i dipendenti) e, soprattutto, cresciuta con il mito della libertà di movimento e dell’esperienza ad ogni costo - ancora meglio se a basso prezzo. L’Europa ha fatto da apripista, con la Convenzione di Schengen che nel 1995 ha rimosso le barriere tra le nazioni dell’Unione, permettendo la libera circolazione delle persone. Ma anche nel Sud Est asiatico e in Sud America, rispettivamente con l’ASEAN nel 2003 e MERCOSUR nel 2010, sono state approvate normative simili. In queste regioni, i millennial sono la prima generazione ad avere il privilegio di viaggiare all’estero a prezzi abbordabili, grazie alla presenza di compagnie come AirAsia o Latam.
I millennial non sono solo i clienti ma anche molti dei dipendenti delle compagnie low cost. Un tempo le professioni di pilota, hostess o steward erano percepite con un certo fascino: bellezze alla stregua di modellə, divise eleganti e rilassanti layover in alberghi lussuosi.Oggi si tratta invece di alcuni tra i posti di lavoro più precari (qui un report del 2019, ma possiamo immaginare che con la pandemia la situazione sia solo che peggiorata) e dai turni massacranti. Il doppio standard con cui queste aziende trattano i propri clienti e i propri dipendenti non potrebbe essere più stridente: da un lato celebrano il culto del viaggio, delle esperienze, di una generazione che vive spensierata creando il proprio destino, e dall’altro sfruttano i proprə lavoratorə, pagando stipendi miseri.
Il fenomeno delle compagnie aeree low cost ha avuto e continua ad avere anche altre ripercussioni. La prima è lo sviluppo di un turismo di massa che non era mai esistito prima e che, grazie alla presenza di molti aeroporti secondari che sono anzi stati serviti prima degli aeroporti principali, ha portato masse di persone a viaggiare in regioni sconosciute al turismo estero. Ma anche nelle grandi città, già normalmente prese d’assalto, il fenomeno ha esacerbato il peso che i turisti pongono sulle infrastrutture, strutture di accoglienza e ristorazione delle città: più passeggeri sui trasporti pubblici, più spazzatura da smaltire, più ristoranti turistici, più negozi di souvenir e, ovviamente, più palazzi che diventano hotel e appartamenti che escono dal mercato immobiliare per diventare AirBnb. O, in altre zone del mondo, demolizioni di case o costruzione di ville di lusso su terreni agricoli (Bali un esempio tra moltissimi altri).
Nel libro airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, Sarah Gainsforth analizza ampiamente la nascita, lo sviluppo e l’impatto globale di AirBnb. Una perfetta storia millennial che sembra uscita direttamente da una campagna marketing di EasyJet: una start-up fondata sull’innovazione, la comunità, lo scambio tra culture, l’ospitalità - tutte parole che fanno parte del mito fondativo e del marketing di AirBnb. Dal 2014 in poi, la piattaforma ha continuato a crescere incontrollata, iniziando a influenzare pesantemente il mercato degli affitti a lungo termine in moltissime città (da San Francisco e New York, dove il servizio è stato inizialmente lanciato, a Barcellona, Roma, Napoli ecc.): impennata dei prezzi, ulteriore carenza di alloggi provocata dalla trasformazione di case ‘normali’ in AirBnb, residenti di lunga durata costretti a trasferirsi altrove al termine dei propri contratti di locazione, giovani sempre più in difficoltà nel trovare un affitto a prezzi ragionevoli. Magari proprio gli stessi millennials precari che viaggiano con le compagnie low cost, che usano AirBnb per risparmiare qualcosa rispetto ad un albergo e che dormono da amici per affittare la propria camera ai turisti e arrotondare. Il cerchio potrebbe chiudersi così.
Verso la fine del libro Gainsforth riporta le parole di una ragazza romana che ha smesso di affittare la propria stanza su AirBnb: “ ‘Questo non è un incontro tra culture, è la saga della banalità, della superficialità e del consumo. La città è consumata, io mi sentivo consumata. Ogni cosa è da consumare. E credo che AirBnb abbia giocato un ruolo importante in questo, insomma poter viaggiare ‘sentendoti a casa tua’ è davvero un controsenso, un paradosso. Il bello del viaggio è la scoperta, non è ‘sentirsi a casa tua.’ Per questo, c’è la casa.”
In effetti Airbnb ha contribuito fortemente anche alla globalizzazione di un certo tipo di estetica (shameless plug, Fabiola ed io ne abbiamo scritto e discusso per Strelka Institute): interni scintillanti e minimalisti, piante tropicali piazzate strategicamente, accenti in legno o colori pastello, piastrelle o tappezzerie suggestive ecc. Tutto parte di un immaginario riconoscibilmente instagrammabile e aspirazionale, che fa sentire affermato anche chi viaggia con un budget ristretto. Airbnb ha creato una rete globale di non-luoghi domestici in cui ci sentiamo ‘a casa’ nello stesso modo in cui ci è familiare un certo tipo di estetica, spazi e colori che vediamo aprendo Instagram ogni giorno. Gli appartamenti per affitti turistici diventano set dove raccontare uno stile di vita lussuoso e contemporaneo, un modello da emulare nelle nostre vere case. Il reale si intreccia con il digitale e il domestico si sovrappone al generico.
Uguale a se stesso
La me bambina in viaggio verso l’estate si sovrappone alla me in anni più recenti in cui, essendomi trasferita all’estero, ho continuato a frequentare gli aeroporti con (troppa) regolarità. Le immagini si sovrappongono nella mente: un terminal pulito e scintillante, riviste patinate per passare il tempo, sushi e snacks confezionati, gli assaggi di bibite e alcolici offerti ai viaggiatori di passaggio. Il tabellone delle partenza con le destinazioni che suonano tutte come una piccola avventura. Gli spazi attorno a me sono sempre uguali a se stessi, quasi senza tempo, con le proprie funzioni e le proprie regole, gesti da ripetere in automatico. Togliere la cintura e separare i liquidi prima del controllo di sicurezza. Passare sotto il metal detector. Comprare una bottiglia d’acqua di plastica. Gesti che diventano quasi rituali rassicuranti. La mia consapevolezza, però, è cambiata e sono meno spensierata, meno innocente.
Mi torna spesso in mente il passaggio in apertura di Nonluoghi, pubblicato dall’antropologo Marc Augé nel 1992, in cui un personaggio immaginario, un generico ‘Pierre Dupont’, si reca all’aeroporto di Parigi Roissy per un viaggio di lavoro. Senza bagagli e passati i controlli del caso, Pierre “assapora la sensazione di libertà datagli dalla certezza di dover solo attendere il corso degli avvenimenti una volta ‘messosi in regola’ grazie al fatto di aver intascato la carta di imbarco e declinato la propria identità.” Nelle pagine che seguono Augé passa in rassegna altri momenti che contribuiscono a far sentire Pierre così a proprio agio e rilassato: nei negozi trova prodotti familiari, le pubblicità lo rassicurano sul fatto che le sue carte di credito verranno accettate presso qualunque destinazione e perfino gli articoli delle riviste di bordo seguono stereotipi ben conosciuti (Africa ‘magica’, Italia ‘romantica’ e così via). Il mondo dei non luoghi non è solo un mondo fatto di forme architettoniche e spaziali che si ripetono in modo standardizzato e pressoché identico per via della propria funzione e della globalizzazione dell’economia (aeroporti, stazioni, centri commerciali, catene di alberghi ecc.), ma è anche un mondo a cui si accede tramite precisi codici di comunicazione e di comportamento: consumare, avere un’identità desiderabile, una carta di credito e un passaporto forte, rispettare precise regole e modalità di uso all’interno di questi spazi. In breve, come scrive Augé, “se i luoghi antropologici creano un sociale organico, i nonluoghi creano una contrattualità solitaria”.
Il motivo per cui ci sentiamo così a nostro agio in questa dimensione di genericità spaziale dipenderebbe dal fatto che “lo spazio del nonluogo libera colui che vi penetra dalle sue determinazioni abituali. Egli è solo ciò che fa o che vive come passeggero, cliente, guidatore. Forse egli è ancora preso dalle preoccupazioni della vigilia, già preoccupato per l’indomani, ma il suo ambiente al momento lo allontana provvisoriamente. Oggetto di una blanda possessione alla quale si abbandona con maggiore o minor voglia e convinzione, come qualunque posseduto egli gusta per un po’ le gioie passive della disidentificazione e il piacere più attivo di recitare una parte.” I nonluoghi, un po’ come la meditazione o le lezioni di yoga, ci permettono di vivere nel presente, di sospendere parte della nostre preoccupazioni perché impegnati a seguire segnali e imposizioni del luogo. Ci sentiamo in dovere di assumere un ruolo che ci libera temporaneamente dalla nostra personalità, di essere più accondiscendenti con noi stessə e con il sistema neoliberista in cui viviamo, ci lasciamo sedurre dalle regole che ci rendono uguali agli altri passeggeri. Siamo pur sempre in balìa degli eventi, ma in un contesto talmente controllato che sentiamo di poter tirare un pochino il fiato (almeno finché il nostro volo non è in ritardo di qualche ora, a causa dello sciopero dei piloti o degli assistenti di volo di Ryanair).
Già nella prima edizione di Nonluoghi Augé allude agli “effetti pervasivi” delle immagini, centrali nell’informazione televisiva, manipolabili e parte di un codice di comunicazione più impalpabile e meno obiettivo della parola. Le immagini sono emotive, evocative, “sotto i nostri occhi esse compongono un universo che nella sua diversità è relativamente omogeneo.” Oggi il nonluogo si estende, in effetti, al di là degli spazi fisici. Spesso inizia proprio dalle immagini che vediamo sui social media (a volte, che produciamo noi stessə), sui pochi centimetri di schermi dei nostri telefoni in cui aeroporti, alberghi, appartamenti di Airbnb, caffetterie, ristoranti, paesaggi e persone in posa si mescolano e si imitano l’una con l’altra. L’immagine del mondo che finiamo per crearci è sempre più omogenea, sempre meno inaspettata. Viaggiamo fino a Bali per soggiornare in una villa che non ha più segni distintivi di quelli di un’autostrada, con il paesaggio che cambia fuori dai finestrini ma la stessa grammatica visiva di base. Prendiamo un caffè con il latte di avena decorato da disegni concentrici e il poké o un vegan burger in un ristorante alla moda che abbiamo visto su Instagram, ma che a pensarci avremmo potuto ordinare anche in centro città. Perché non è solo l’immagine ad essere più uniforme, sono anche i luoghi fisici che vengono progettati sempre più secondo una formula standardizzata e ripetibile globalmente (per usare le parole di Keller Easterling).
L’ombelico del mondo
L’idea di ‘aerotropolis’ è stata teorizzata dall’accademico americano John Kasarda a partire dal 2000 come un nuovo modello di città in cui l’aeroporto non si trova più ai margini, collegato da navette e linee della metropolitana estese ad hoc, ma al centro di una regione urbana. Un centro fisico ma anche economico e semiotico, attorno cui ruotano le principali infrastrutture. Le aerotropolis sono luoghi di commercio, l’incarnazione fisica di Internet: un network di hub e aerei per il trasporto rapido di merci e persone che possa sostenere la rapidità di Internet. Le considerazioni di Kasarda partono dal fatto che, per quanto la finanza e le interazioni sociali si stiano rapidamente digitalizzando, il commercio globale di merci è ancora al centro dell’economia e gli aerei non sono mai stati più necessari, dato che “il web non non può spostare il tuo pacco da Amazon”.
Diverse città globali hanno seguito le teorie di Kasarda e l’esempio più famoso è forse quella di Amsterdam. Il quartiere Zuidas è stato costruito a poco più di 5 minuti di treno dall’aeroporto di Schiphol e a 15 dal centro storico, in una posizione strategica che ospita più 700 aziende e multinazionali e 2300 residenti (dati aggiornati al 2016). Amsterdam è solo una delle città che hanno puntato tutto sul proprio aeroporto come catalizzatore di crescita. Dubai ha investito 32 miliardi di dollari nello sviluppo del secondo aeroporto più utilizzato al mondo che si trova, nonostante rumore e inquinamento generati da un tale traffico aereo, in un’area molto centrale della città. In Cina, città come Shenzhen e Zhengzhou hanno puntato sul modello dell’aerotropolis in quanto centri produttivi globali da cui prodotti di ogni genere vengono esportati e venduti in tutto il mondo.
L’architettura di questi luoghi, neanche a dirlo, è genericamente ipermoderna, come nel manifesto The Generic City, pubblicato nel 1995 dall’archistar Rem Koolhaas. Una città fatta di grattacieli di vetro, cemento e acciaio, di parchi perfettamente rettangolari, aree commerciali luccicanti e musei dalle forme più strane. La città generica è definita da Koolhaas “un frattale”, una ripetizione infinita e sempre identica a se stessa di (infra)strutture così schematizzate da poter essere ripetuta ovunque nel mondo. La scrittura di Koolhaas si fa quasi romantica nel descrivere alcune caratteristiche principali della città generica, una sorta di utopia in cui le persone possono vivere liberated from the straitjacket of identity, libere dalla camicia di forza dell’identità, e ciascuna con il proprio spazio. Gli abitanti saranno così privi di identità che gli spazi condivisi risulteranno “evacuati” di ogni alterità, trasmettendo a tutti un “puro stato di calma soprannaturale”. (Ansietta, tbh).
Uscendo dalla logica distorta e dal misticismo di questo sogno neoliberista, ci troviamo di fronte a tutte le problematiche provocate da un modello di sviluppo che sta completamente distruggendo il pianeta perché colpevole di una crisi climatica sempre più rapida ed evidente e di disuguaglianze sempre più drammatiche. Il settore dell’aeronautica, sia essa per business, diletto o trasporto di merci, è responsabile del 2% di tutte le emissioni di CO2 a livello globale, senza contare l’inquinamento provocato dalle infrastrutture che reggono il settore (aeroporti, depositi, trasporti accessori, cementificazione, produzione industriale di aerei e componenti ecc.).
Lo stesso viaggio in aereo e gli aeroporti di per sé sono luoghi profondamente esclusivi, a cui possono avere accesso solo un certo tipo di persone: quelle più benestanti e desiderabili, quelle che hanno le carte in regola e la cui identità viene globalmente riconosciuta come privilegiata. I possessori di passaporti forti sono gli unici che possono indulgere nei sentimenti di relax, calma e sospensione della realtà così liricamente descritti da Augé e Koolhaas. Le persone per cui cancellare l’alterità può sembrare un’alternativa praticabile e desiderabile, in quanto non si sono mai dovute confrontare con la propria. Nonostante il modo in cui ci fanno sentire, o forse precisamente per questo motivo, gli aeroporti sono nodi globali di un sistema profondamente ingiusto e non sostenibile.
Quest’ode sta prendendo una piega troppo negativa, ma ancora per poco.
Volare oh-oh
Chiudendo il cerchio della dissonanza cognitiva aperto all’inizio di questo articolo, devo confessare che, nonostante tutte le problematiche causate dal settore dell'aeronautica, se dicessi che non mi manca volare, mentirei. Mi manca da morire (anche se la mia impronta di CO2 non è mai stata così bassa come negli ultimi due anni). Oltre alla possibilità di viaggiare di per sé, mi manca proprio la sensazione del decollo. L’euforia dell’aereo che prende velocità e dell’improvviso vuoto nello stomaco mentre si stacca da terra, mentre mi abbandono contro il sedile con la cintura di sicurezza allacciata (anche se sembra assolutamente inutile nell’offrire qualunque tipo di protezione). Penso a come siamo fortunati a poter conoscere questa sensazione di velocità estrema, a vedere il mondo dall’alto, a quanti esseri umani devono aver desiderato di poter volare, di poter viaggiare altrove e a quanti lo desiderino tutt’ora, senza avere questo enorme privilegio. Questo suona un po’ come un elogio futurista alla modernità, ma è anche vero che il desiderio di volare fa parte dell’immaginario collettivo da secoli, se non da millenni. In uno tra i più famosi miti greci, l’architetto Dedalo costruisce ali di cera e penne d’uccello per sé e per il figlio Icaro che, preso dall’euforia folle del volo, si avvicina troppo al sole fino a far sciogliere la cera e precipitare. La Nike di Samotracia, la dea della vittoria esposta al Louvre di Parigi e datata tra il 200 e il 180 a.C., ha due ali spiegate sulla schiena. Dalle macchine per volare di Leonardo da Vinci ai bellissimi aquiloni costruiti in Cina già dal V secolo a.C., fino alle prime mongolfiere di fine 1700 e i quadri di Chagall, il volo è stato immaginato, teorizzato, rappresentato e desiderato.
Oggi il viaggio per aereo è diventato qualcosa che facciamo con molta frequenza e facilità (quantomeno, pre-pandemia), ma anche uno dei tanti privilegi delle nostre vite che diamo per scontato, un’area grigia con cui cerchiamo di convivere, uno spreco che cerchiamo di ridurre. Ma che, nonostante tutto, continua a trasmetterci emozioni contrastanti, libertà unita a senso di colpa, rilassamento unito a rabbia. Gli aeroporti mi permettono di essere un po’ superficiale, per qualche ora, di essere un po’ più indulgente con me stessa, mentre compro una bottiglia d’acqua o del cibo imballato in plastica monouso (“non c’è altra alternativa”) o acquisto una crema costosa e probabilmente inutile al duty free (“sto comunque risparmiando”). Nessuna di queste è una soluzione ai nostri problemi ma, per qualche ora, ci sentiamo liberatə dal peso del mondo sulle nostre spalle. Il che, per i nostri recettori di serotonina, non è poco. Come dice la voce preregistrata di Ryanair, Sit back, relax, and enjoy your flight.
Bibliografia
Sarah Gainsforth,
airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale,
DeriveApprodi, 2019
Marc Augé,
nonluoghi
, 1992 (ed. italiana eulèthera, 2009)
Keller Easterling,
Extrastatecraft. The Power of Infrastructure Space,
Verso, 2014
Rem Koolhaas,
The Generic City,
1995 (ed. inglese Fontenot, 2015)
John D. Kasarda,
Aerotropolis: The Way We’ll Live Next
, Penguin, 2011
Fotoromanzo
Estate (italiana) 🌴
Come moltə altrə non possiamo che consigliare Limoni, il podcast in otto puntate prodotto da Internazionale per fare luce e discutere apertamente una delle vicende più gravi e tralasciate della storia italiana recente.
Il titolo della serie è un insulto in lingua sarda rivolto ai piromani, “Possiate bruciare vivi”. Sul suo profilo Instagram @limba.malal’artista ha realizzato diversi post sui drammatici incendi che quest’anno stanno colpendo l’isola. Molto ben fatto anche questo articolo de Il Post. © Francesca Pili
Perché l’estate italiana è, sempre e comunque, un’estate al mare <3
Profilo
Lina Lapelytė
Se avete tra i vostri contatti persone interessate al teatro e all’arte contemporanea, vi sarà sicuramente capitato di vedere in questi ultimi due anni l’immagine di una spiaggia dai contorni onirici abitata da persone annoiate in colori pastello. Sto ovviamente parlando di Sun & Sea (Marina), installazione performativa realizzata dalle artiste lituane Lina Lapelytė, Vaiva Grainyte e Rugile Barzdziukaite nel 2017 e presentata in inglese alla 58° Biennale di Venezia nel 2019 all’interno del padiglione Lituano, vincendo il Leone d’Oro come migliore Partecipazione Nazionale. Dal 22 giugno al 4 luglio l’opera è stata ospitata a Roma nella cornice del Teatro Argentina, rendendo nuovamente pervasiva l’immagine di questa spiaggia dall’atmosfera idilliaca quanto surreale. Sun & Sea è una finta spiaggia, allestita di volta in volta all’interno di sale espositive o teatri. L’intera azione ha luogo in questo ambiente ovattato e familiare, che ci riporta immediatamente alle giornate estive passate al mare, all’afa e all’ozio, alla Settimana Enigmistica e le chiacchiere sotto l’ombrellone. In questo contesto ordinario quanto affettato, lə spettatorə osserva dall’alto lз performer-bagnanti che cominciano a raccontare le loro storie, dando vita ad un susseguirsi di voci che lentamente sfocia in un coro che intona in arie solistiche e armonie di gruppo le cause e gli impatti fisici del cambiamento climatico. La leggerezza e indifferenza dei personaggi acquista un nuovo significato mentre lə spettatorə viene immerso in questa narrazione corale e da osservatore distaccato diventa parte dell’azione e del problema.
Una rappresentazione efficace e spietata, che tradisce l’apparente spensieratezza e tranquillità della scena per denunciare l’indifferenza umana verso le proprie azioni e le gravi conseguenze che queste hanno prodotto. La violenza della crisi climatica non viene raccontata attraverso l’uso di immagini drammatiche o toni apocalittici ma mettendo lə spettatorə davanti a se stessə e alla sua quotidiana noncuranza. Nel suo ultimo lavoro, Instruction for Woodcutters (2021), realizzato per il festival Glasgow International, l’artista torna nuovamente sul tema dell’ambiente, concentrandosi sul potere della voce umana e della narrazione come mezzo attraverso il quale riconoscere come tutti gli esseri viventi siano interconnessi. Diversamente da Sun&Sea, qui l’elemento umano sembra scomparire tra i tronchi che compongono l’installazione, mentre le voci si uniscono al suono del vento e dell’acqua.
Artista, musicista e performer, Lina Lapelytė nasce nel 1984 a Kaunas, Lituania, e oggi vive e lavora tra Vilnius e Londra. Inizia la sua formazione come musicista, studiando violino classico presso la Lithuanian Academy of Music and Theatre (LMTA) per poi trasferirsi a Londra dove studia Sound Arts e poi Scultura al Royal College of Art. La dimensione performativa e musicale è alla base di tutti i suoi lavori, attraverso cui l’artista porta avanti una riflessione sulla nostalgia e gli stereotipi di genere mescolando musica classica, opera, folklore e pop. Personaggi e dettagli della vita quotidiana prendono vita nel lavoro di Lapelytė, acquistando un nuovo peso e forma, generando nuovi punti di vista e mettendo in discussione il modo in cui ci approcciamo alla nostra quotidianità per mezzo di cortocircuiti visivi, sonori e concettuali.
Esemplare in questo senso è il lavoro Have A Good Day!, un’opera contemporanea realizzata nel 2013 in collaborazione con le artiste Rugile Barzdžiukaitė e Vaiva Grainyte e in cui l’artista porta sul palco la vita delle cassiere di un centro commerciale, svelandone i pensieri, le storie personali e i piccoli drammi che si celano dietro i saluti e gli automatismi quotidiani. Anche in questo caso l’utilizzo strategico di luci e suoni contribuisce a creare un'atmosfera familiare ma inquietante. Senza esprimere direttamente il proprio punto di vista, l’artista realizza così un’efficace critica al modello economico consumistico e all’alienazione capitalista, ricontestualizzando ‘personaggi’ e attività quotidiane per farne emergere la natura grottesca.
Un lavoro di assimilazione e ricontestualizzazione che seppur in maniera molto diversa è possibile osservare anche nella performance Candy Shop (2013) in cui Lapelytė utilizza il testo dell’omonima canzone di 50 cent per attivare una riflessione corale sulla bellezza, sul genere e sulle gerarchie di potere che definiscono la società contemporanea. Attraverso questa operazione di riscrittura materiale e concettuale, l’artista fa emergere il carattere grottesco e macchiettistico della canzone, a sua volta sottoprodotto della distorsione di una cultura che ha radici molto più profondi e lontane di come viene mostrata e venduta, per poi amplificare il suo lavoro di decostruzione a tutta la cultura contemporanea. Nel corso del tempo il lavoro si è arricchito di elementi audio e video, arrivando ad incorporare un coro maschile e una banda.
Il suono non è dunque il protagonista principale dei lavori di Lapelytė ma è lo strumento attraverso cui l’artista sviluppa il concetto alla base del lavoro, amplificando la voce e la vita dei personaggi che prendono vita in questi quadri. Nel lavoro di Lapelytė il suono diventa immagine e l'esperienza dell'opera non si esaurisce nell’ascolto ma si evolve attraverso l’interazione. Lǝ spettatorǝ si trova in un punto di vista privilegiato e ambiguo, avendo l’opportunità di immergersi nell’interiorità dei personaggi e di soffermarsi sui piccoli dettagli che compongono l’esperienza umana senza però poter intervenire, come un narratore onnisciente che osserva la storia consapevole della sua (forse) inevitabile conclusione.
Ciliegie
i nostri pick culturali
🍒 Podcast 🍒
Cancel Culture episodio di You’re Wrong About che come sempre ci prendono in pieno
Pieces of Britney di BBC 4, una serie eccellente in 8 episodi da ascoltare sotto l’ombrellone (#freebritney)
🍒 Letture 🍒
Un romanzo: Luster, romanzo d’esordio di Raven Leilani (in italiano edito da Feltrinelli con il titolo Chiaroscuro) e uno dei libri più commentati di questo 2021. La storia di una giovane afroamericana che cerca solo di sopravvivere al mondo, intrecciando emozioni, precarietà, dipendenze, sesso e desiderio ~ hot hot hot.
Un saggio: Vita segreta delle emozioni di Ilaria Gaspari, Einaudi (2020). Un saggio scorrevole e godereccio sulle emozioni, in cui l’autrice intreccia citazioni illustri (ma mai banali) da filosofia e mondo greco-romano con la propria storia emotiva personale.
~ bonus: Tutto quello che so sull’amore, di Dolly Alderton, edito in traduzione italiana da Rizzoli (2021) e diventato un caso editoriale e nuovo libro cult per i millennials tormentati dal dover crescere <3
Un articolo: Il lavoro dei sogni non esiste
Misc: Le Visionarie, antologia a cura di Ann e Jeff Vandermeer, edito in traduzione italiana da Nero (2018), raccoglie racconti di scrittrici attive nei generi della fantascienza e del fantasy (da Ursula K. Le Guin a Octavia Butler e molte, molte altre) ~ racconti perfetti da leggere tra un bagno e l’altro per immaginare un futuro diverso
🍒 Musica 🍒
Tipe che ci piacciono molto Moquette - Single by Laila Al Habash | Spotify & MAN MADE - Album by Greentea Peng | Spotify ~ alto rischio di allucinazioni nell’afa estiva
LA playlist dell’estate: touchy-feely creata da Fabiola per Musica Stampata #4
🍒 Film 🍒
Il documentario WeWork: or The Making and Breaking of a $47 Billion Unicorn (2021) racconta la rovinosa parabola di WeWork e del suo co-fondatore Adam Neumann ~ aka perchè non si può cambiare il mondo attraverso il turbocapitalismo
🍒 L’Internet 🍒
Il discorso di Valentina Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi alla Cerimonia di consegna dei diplomi della Scuola Normale Superiore di Pisa e un commento pubblicato nell’ultimo numero di Ghinea.
Lil Nas X perchè sì.
PAUSA. Una bellissima Conversazione tra Carlotta Cossutta, Jennifer Guerra e Arianna Mainardi - moderata da Lucrezia Calabrò Visconti - su femminismo e biopolitica partendo dal motto femminista ‘Il personale è politico’.
Fermate carine. La storia d’amore più hot dell’estate.
Come affrontare il pay gap? Linguetta. E ricordate, non uscite nelle ore più calde e bevete tanta acqua.
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Noi siamo arrivate alla fine di questo settimo numero di Interstizi.
Grazie per essere arrivatə fin qui, per averci letto, per averci dedicato del tempo.
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Interstizi è un progetto a cura di Fabiola Fiocco e Giulia Pistone.
A presto!