Benvenutə al quindicesimo numero di Interstizi,
una newsletter occasionale che nasce dal bisogno di mettersi insieme, di condividere riflessioni e pensieri fuori da uno spazio predefinito. Una piattaforma informale di confronto e di ricerca su arte, cultura pop e attualità che speriamo possa aprirsi nel tempo a tanti punti di vista e modalità espressive diverse. Uno spazio fisico e mentale per germogliare, condividere quello che ci sta a cuore, raccontare e raccontarsi, trovare la propria voce ma anche lanciarsi in qualche sano rant.
Con questo numero estivo vi auguriamo di staccare completamente da tutto e da tuttз e di indugiare nell’ozio più totale. Ci prendiamo cura del vostro tempo libero con il cruciverba dell’estate Interstizi Enigmistici e inauguriamo la nuova rubrica Appunti, per condividere riflessioni incompiute sotto forma di parole e frammenti visivi.
Per finire, vi salutiamo come sempre con le ciliegie in versione estiva rinforzata.
Buona lettura! 🌿
Fabiola & Giulia
Panorama
Preferisco il rumore del mare
Ormai più di due mesi fa, l’internet si è svegliato con una nuova polemica sul tema del lavoro, o meglio del valore politico del non lavoro. Di ritorno da una vacanza e a corollario di una slide di foto di paesaggi e cibo bellissimo, Giorgia Soleri, nota influencer della bolla femminista-commerciale italiana, ha scritto su Instagram una didascalia in cui reclamava l’importanza dell’ozio nella nostra società iperproduttiva. Una grande discussione è nata sotto il post e su Twitter, dove in moltз si sono scagliatз contro di lei e la sua vita privilegiata, denunciando quello che è sembrato un evidente scollamento dalla realtà. Cosa ne può sapere una influencer della fatica della vitavera™?
Eppure, nonostante le mille contraddizioni e le percepibili stonature, il post fa emergere questioni interessanti. Possiamo davvero non fare nulla? Chi si può permettere questo privilegio? Come si materializza il riposo in una società in cui ogni momento di vita è ottimizzato e generiamo valore economico anche solo guardando le storie di Instagram distrattamente mentre siamo in bagno?
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Fin da quando sono piccola, nei momenti di particolare stanchezza mi viene la febbre. Non è un disturbo provocato dall’ansia, o quantomeno non direttamente, perché non si tratta di malesseri passeggeri che mi impediscono di partecipare ad un determinato evento stressante (evitare non è mai stato nel mio stile), me di un cedimento che arriva nel primo istante in cui posso finalmente mollare un po’ il colpo.
Le vacanze, il giorno subito dopo una deadline o la settimana dopo un mese troppo pieno: non importa che programmi avessi fatto, il mio corpo mi impone di fermarmi e di riposare.
Ho sempre trovato frustrante questo meccanismo per cui, al posto di trovare il modo di allentare un po’ il ritmo durante un periodo faticoso, professionalmente o anche a livello personale, devo portarmi ogni volta fino ad un punto di esaurimento che finisce per inghiottire parte del mio tempo libero. Come argomenta Byung-Chul Han in La società della stanchezza, la società della prestazione in cui viviamo è caratterizzata dal passaggio dal ‘dovere’ al ‘poter-fare’: il nostro valore e la nostra libertà si esprimono nella nostra capacità di auto-sfruttarci, inevitabile nella partecipazione al mercato del lavoro contemporaneo.
Nella generale frenesia e iperattività, sempre a caccia del prossimo progetto che ci darà quella soddisfazione e quella libertà a cui aneliamo, finiamo intrappolati in una guerra contro noi stessз, in cui il soggetto di prestazione sfrutta se stesso fino alla consunzione (burnout).
Questa percezione è sempre più consolidata anche nella cultura pop. Nel 2019 l’articolo di Anne Helen Petersen How Millennials Became the Burnout Generation diventa virale, seguito dal libro bestseller pubblicato dall’autrice l’anno successivo. Petersen parte da una semplice constatazione: i millennial sono molto meno capaci di vivere una vita da veri adulti - ‘adulting’, come viene riassunta in inglese - rispetto alle generazioni precedenti. Abbiamo interiorizzato in profondità l’idea che potremo realizzarci ed essere qualcunз soltanto tramite il lavoro e l'auto-sfruttamento e che la nostra opportunità di sentirci soddisfattз sia sempre dietro l’angolo ma, allo stesso tempo, ci scontriamo con una realtà in cui i contratti sono estremamente precari e malpagati, l’ascensore sociale è bloccato e la stessa rincorsa perenne ad un nuovo progetto migliore del precedente rende impossibile qualunque tipo di soddisfazione. Questo senso costante di ansia, insoddisfazione, agitazione, sensazione che dovremmo usare meglio il nostro tempo si traduce in burnout che, secondo Petersen, produce un tale affaticamento mentale da far apparire commissioni come portare e ritirare gli abiti in lavanderia, fare la dichiarazione dei redditi o prenotare una visita medica alla stregua di ostacoli insormontabili.
Questa sensazione di fallimento innesca una catena distruttiva perché, come scrive Han, in una società che ritiene che “niente è impossibile” (...) il “non-essere-più-in-grado-di-fare” conduce ad un’autoaccusa distruttiva e all’autoaggressione.
Conosco bene questo tipo di stanchezza mentale annientante: le cose da fare a lavoro e nella mia vita personale che si intrecciano e si affastellano nella mia testa, facendomi sentire sommersa e rendendomi incapace di agire con calma e organizzazione. Passo da una casella mail all’altra iniziando, interrompendo e riprendendo più volte gli stessi lavori, lo schermo del telefono di fianco al computer continua a lampeggiare di notifiche su whatsapp, e intanto a casa non ho niente di fresco da mangiare perché questa settimana non sono riuscita ad andare a fare la spesa, i pochi momenti di stacco li ho usati per vedere qualche amica o andare a qualche evento culturale oppure per buttarmi sul letto e fissare il telefono/vuoto/libro.
L’iperattività e la frenesia in cui viviamo ci lasciano un senso di vuoto e di incapacità: reagiamo velocemente a moltissimi stimoli sperando che una maggiore attività ci dia un senso di libertà, ma ci ritroviamo soltanto più esaustз e passivз.
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In The Refusal of Work: Rethinking Post-Work Theory (che vi avevamo segnalato qualche numero fa), il sociologo David Frayne spiega come nell’attuale organizzazione del lavoro non esista davvero il tempo del riposo: da un lato il tempo libero è profondamente commercializzato, dall’altro, le attività di recupero o compensazione a cui ci dedichiamo dopo il lavoro non sono altro che un modo per prepararci ad essere di nuovo soggetti produttivi il giorno dopo. Arlie Hochschild in The Outsourced Self (2012) si focalizza sul ruolo che l’industria dei servizi gioca in questo sistema, analizzando il meccanismo per cui le persone con maggiore capacità di acquisto tendano ad usufruire di servizi di pulizia o food delivery per far fronte alle proprie esigenze riproduttive e di vita quotidiana, comprando il tempo degli altri per ‘liberare’ il proprio. Ma per fare cosa?
In questo contesto Il riposo non è dunque un momento improduttivo, in cui possiamo dedicarci ad attività che ci arricchiscono emotivamente, che semplicemente vogliamo fare senza altre finalità oppure un momento in cui effettivamente non facciamo nulla, ma una pausa tra turni di lavoro in cui dobbiamo riuscire il più velocemente possibile a recuperare la nostra operatività ed efficienza.
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È interessante notare come uno dei pochi momenti in cui, per la nostra società, è accettabile fermarsi a riposare sia quello della malattia. Fin da piccolз impariamo che se fingiamo in modo credibile di stare male possiamo uscire per un giorno dalla solita routine e restare a casa ad oziare (sono sicura di non essere la sola ad avere idilliaci ricordi di giornate di ‘malattia’, quelle in cui non stavo davvero male, passate a giocare, sfogliare libri e riviste oppure guardare le videocassette di ‘Esplorando il corpo umano’, uno dei miei preferiti). Crescendo, il senso del dovere unitamente alla necessità di giustificare la malattia con certificato medico, limita questi momenti di riposo a situazioni in cui le nostre condizioni fisiche non ci permettono effettivamente di funzionare con efficienza, oppure in cui potremmo contagiare altrз mettendolз in pericolo.
Allo stesso tempo, nell’epoca neoliberista in cui viviamo, i giorni di malattia vanno ottimizzati al massimo, per recuperare quanto prima la propria funzionalità e tornare a performare/produrre. In How to be a Person in the Age of Autoimmunity, l’artista statunitense Carolyn Lazard racconta con grande apertura la sua esperienza con la comparsa di sintomi sempre più invalidanti e la successiva diagnosi di due malattie croniche autoimmuni prima dei 30 anni. Costretta a letto per mesi, confrontandosi con le proprie funzioni biologiche che prendono il sopravvento e con l’esperienza della disabilità, Lazard scrive: voglio parlare di questo periodo delle mia vita non come di un inconveniente, ma come un momento profondo e degno di essere condiviso. Voglio valorizzare il mio tempo in modi che non abbiano nulla a che fare con il lavoro, voglio dire un grande ‘vaffanculo’ a tutte le persone che, durante una cena, mi hanno chiesto: ‘ma quindi tu che cosa fai?’, perché non ho fatto nulla da tantissimo tempo.
Anche nel confronto con i medici che la seguono, l’idea preponderante è di trovare una terapia che possa rimetterla in sesto il prima possibile per permetterle di rientrare a lavoro - we’ll get you back to work - che diventa un sinonimo di ‘tornare a vivere una vita normale’ anche se non dovrebbe esserlo. La ripresa sembra una corsa, in cerca di un recupero prima del tempo e facendo più il gioco del sistema capitalistico che l’effettivo benessere dellз paziente. Come nota Lazard, potrebbe volerci di più a riprendersi di quanto sia conveniente per il tuo capo.
L’impatto neoliberista sul nostro modo di pensare e vivere la malattia è però molto più difficile da smantellare del previsto. Lazard si trova spesso provare paura di rimanere indietro nella propria carriera rispetto allз suз coetaneз e inizia a sentirsi in colpa per la propria incapacità di essere un membro produttivo della società consumatrice. L’artista ha dovuto lavorare profondamente con se stessa per comprendere a fondo e accettare l’ansia di tornare a lavoro e il suo scontrarsi con una malattia fortemente invalidante e senza un chiaro percorso di ripresa.
In una visione neoliberista della malattia, la sofferenza, il dolore, l’isolamento e la paura spariscono, lasciando spazio solamente ad un culto del ‘sano’ che corrisponde ad un culto del ‘funzionale’. L’ottimizzazione trionfa sul riposo: allenamenti, rigide routine di acqua e limone-meditazione-integratori, alimenti puliti, l’apple watch che traccia i nostri battiti cardiaci e la qualità del nostro sonno, ricordandoci di bere acqua e di alzarci per camminare se stiamo troppo seduti. Sembra che solo una sequela infinita di azioni possa renderci perfettamente sani, facendoci evitare la malattia e con essa il momento di stasi, caos, imperfezione che ne consegue.
Nei Minima moralia, il filosofo Adorno scrive che (citiamo qui liberamente dal paragrafo) la proliferazione indiscriminata del sano costituisce già sempre, di per se stessa, la malattia. Il suo antidoto è la malattia che è divenuta consapevole di sé (...) Questa malattia salutare è il bello. Esso impone un freno alla vita e quindi alla sua decadenza. (...) Chi odia la distruzione, non può fare a meno di odiare anche la vita: solo il morto, l’inanimato, è l’immagine adeguata del vivere non deformato.
Questo paragrafo mi fa venire in mente il romanzo Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh in cui la protagonista, sull’orlo del burn out per via della morte dei genitori e di una propria percezione di mancanza di senso generale, decide di dormire per un anno con l’aiuto di un cocktail di psicofarmaci somministrati da uno psichiatra compiacente. Il riposo farmacologico, imposto e auto-prescritto, diventa un modo per abbracciare l’incertezza e la deformità della vita, rendendosi inanimata. Per quanto la trama sia paradossale *spoiler alert* al termine dell’anno di riposo e oblio il trattamento funziona: la protagonista ha attuato un effettivo reset, non si ricorda più le motivazioni di molti futili risentimenti e riesce a riprendere in mano la propria vita e a gestirne le difficoltà.
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Fisso lo schermo del computer, incapace di pensare a qualsiasi cosa, mi fermo per qualche secondo. Sono le 17.02, le cose da fare si accumulano nella mia testa, insormontabili come una montagna. La casella mail (anzi le caselle mail, perché magari fosse solo una) è piena di persone che chiedono qualcosa, nel frattempo lo schermo del telefono che sto caricando di fianco alla tastiera continua ad accendersi e spegnersi di notifiche di whatsapp, anche lì persone che vogliono qualcosa.
Questo intreccio di notifiche, di cose che succedono e di cui devo prendermi cura sul momento, finisce per esacerbare la mia tendenza caratteriale a disperdere le mie energie facendo molteplici cose in contemporanea.
Multitasking, abilità che tuttз abbiamo sicuramente indicato sui nostri CV come un punto di forza. Gestire più task insieme, prendere decisioni velocemente, non perdersi dettagli per strada. E intanto rimango costantemente con la sensazione di essere completamente fuori controllo perché non riesco a prendermi il tempo giusto per metabolizzare ciò che mi succede, per ponderare le decisioni importanti. Ho la percezione, in certi periodi, di camminare sull’orlo di un precipizio, a strapiombo su un mare di stanchezza che potrebbe inghiottirmi da un momento all’altro, rendendomi incapace di funzionare nella quotidianità.
In La società della stanchezza Han non considera il multitasking un’abilità evolutiva, quanto invece un regresso: in natura gli animali sono costretti a suddividere la propria attenzione tra varie attività perché devono sempre preoccuparsi della propria sopravvivenza. Secondo Han, il multitasking genera un’attenzione diffusa ma superficiale, che rende incapaci di qualsiasi immersione contemplativa (di fianco a questa frase, ho scritto a matita “ecco il mio problema”).
Questa attenzione dispersa che si espande in mille direzioni senza trattenere davvero nulla è, al pari del multitasking, un regresso della nostra specie perché dobbiamo le attività culturali dell’umanità a una profonda attenzione contemplativa. La vita contemplativa e la noia come sano momento di riposo spirituale sono abbracciate da molte culture, come ad esempio il buddhismo, e trovano ampio spazio anche nella filosofia occidentale, a partire dall’idea latina di otium come attività più nobile a cui ci si possa dedicare.
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Ma il lavoro non è l’unico campo in cui l’ozio non è ben visto. Scrollando tra i commenti al post della Soleri, uno ha attirato la mia attenzione: Quando il riposo è atto politico si chiama Sciopero e di solito non te lo pagano. Un’affermazione apparentemente inconfutabile ma che in realtà nega nuovamente al corpo stanco la possibilità di fermarsi. Perchè dobbiamo sempre lottare? Una domanda retorica ma necessaria in un mondo in cui ogni giorno c’è qualcosa per cui mobilitarsi.
In un articolo del 2021, Mikayla Tillery denunciava come la activist fatigue stesse lentamente uccidendo i movimenti per la giustizia sociale. L’attivismo si basa su un continuo lavoro fisico e, soprattutto, emotivo operato in un contesto di stress e frustrazione, nonché sotto la minaccia di continui rischi legali e psico-fisici. Si tratta di azioni volontarie, che vengono spesso fatte nei momenti liberi dellз attivistз, sottraendo dunque tempo al riposo e aggiungendo un ulteriore carico. Poiché l’attivismo è legato alla propria identità, al senso di ingiustizia e al bisogno di agire, è molto più difficile fermarsi o mettere in discussione questo tipo di impegno politico. Inoltre, come spiega perfettamente Tillery, a questa pressione si sommano le aspettative del gruppo di cui ciascun attivistǝ fa parte, che si nutre delle energie deз singolз.
A questa panoramica complessa, si aggiunge anche il tema del privilegio, ovvero di chi può permettersi davvero di prendere una pausa da una società in cui la violenza è sistematica e continua. Questi approcci sono spesso legati a concezioni di attivismo arcaiche e machiste in cui il disagio e la sofferenza sono percepiti come segni di debolezza. Negli ultimi anni però, soprattutto negli ambienti queer/femministi/anti-abilisti, si è cominciato a parlare di activism burnout e a reclamare il riposo e la cura anche all’interno dei contesti politici, immaginando forme di lotta intenzionale e non esclusivamente reattiva, non facendosi dettare l’agenda politica dal sistema ma reclamando i propri tempi e le proprie modalità. Parlare di ozio in relazione all’attivismo può sembrare una posizione estremamente elitaria e superficiale, ma l’esaurimento è uno strumento molto utile al potere perché un corpo esausto farà più fatica a percepirsi come forza agente e a dedicarsi all’attivismo o anche solo ad attività sociali e/o di volontariato. Quando siamo stanchз il sistema vince.
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La risposta sembra dunque una sola, ovvero riposare. Semplice, no? E allora perchè è così difficile non produrre, dire no, prendere una pausa che non sia funzionale a nient’altro?
La pressione alla performatività e al miglioramento ha reso il riposo qualcosa in cui eccellere, cercando le tecniche migliori per ottenere il massimo in minor tempo. Un continuo power nap. Accettare il riposo come spazio d’ozio è il vero ostacolo, ma è anche la più forte rivendicazione in un mondo che colonizza il sonno. In questa direzione va il fenomeno del quiet quitting, ovvero la tendenza a fare il minimo indispensabile o comunque niente in più rispetto al ruolo per cui ciascunə è statə assuntə, che molte persone stanno adottando nel mondo professionale, scindendo la loro identità e realizzazione personale dal proprio lavoro. Come nota la sociologa Francesca Coin nel suo ultimo libro Le grandi dimissioni (2023), la disaffezione dal lavoro è accompagnata sempre più spesso da grandi manifestazioni di entusiasmo ed eccitazione per tutto ciò che può esserci fuori e oltre il tempo della produzione. La mediocrità non è più vista come qualcosa di negativo ma di radicale. Un piccolo gesto di sabotaggio che mira a riappropriarsi del tempo.
Pur guardando con ottimismo e speranza a questo cambio di paradigma è necessario evidenziare che, così come il fenomeno delle grandi dimissioni, al quiet quitting non segue necessariamente un processo di politicizzazione o collettivizzazione. Un caso interessante e ‘contrario’ in questo senso è bare minimum collective, un collettivo artistico inglese dichiaratamente anti-lavorista. Nel loro manifesto, il collettivo rivendica il non fare nulla o per lo meno, quel poco che ci viene richiesto come strategia politica. Si definiscono pigrз e impotentз e rifiutano tutte le formule di progresso, riconoscimento e successo date dal sistema capitalista. Abbracciando ciò che spaventa, ovvero gli spettri del fallimento e della mediocrità, bare minimum collective riesce a ritagliare uno spazio di libertà di azione e creazione fuori dalle metriche esistenti, ripensando il modo in cui tempo ed energie vengono organizzate e distribuite e trovando metodologie che valorizzino il riposo e la cura reciproca.
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In questi giorni torridi, in cui vorremmo lanciare i nostri pc roventi dalla finestra, vi auguriamo di riposare, di non migliorarvi, di non imparare quella lingua che avreste sempre voluto studiare, di non iniziare quel progetto che avevate lasciato in sospeso. Splash 💦
Anche questa estate vogliamo darvi qualcosa per farvi dimenticare temporaneamente del caldo ma ricordandovi sempre e comunque le millennial nostalgiche e cringe che siamo, quindi ecco a voi il cruciverba dell’estate (italiana): definizioni grossolane di cose e persone iconiche. Ringraziamo Valeria Pugliese per la bellissima grafica del primo Interstizi Enigmistici 💌 Valeria è una graphic designer che avete già incontrato nel #8 Interstizi. Si occupa principalmente di design editoriale in ambito culturale, potete vedere i suoi lavori qui e qui.
Clicca qui per scaricare l’immagine in alta risoluzione (se siamo riuscite a caricarla nel modo giusto).
Le soluzioni sono alla fine della newsletter dopo le 🍒
Appunti
Altro giro, altro esperimento. Con Appunti vogliamo provare a condividere con voi pensieri, ragionamenti e frammenti visivi che ci hanno accompagnato nei mesi di lavorazione al nuovo numero. Sono delle riflessioni incompiute e che speriamo possano far sorgere anche in voi nuove suggestioni.
Pagine dal catalogo della mostra Issue: Social Strategies by Women Artists, curata da Lucy R. Lippard nel 1980 all’Institute of Contemporary Arts di Londra. Una mostra che raccoglie il lavoro di artiste femministe prevalentemente inglesi e statunitensi che, attraverso il loro lavoro, mirano a ragionare ed organizzarsi attorno a problematiche sociali. In Some Political Self-Reflections (in alto), l’artista Adrian Piper condivide alcune sue riflessioni politiche (come da titolo), interrogandosi sulla paura del rifiuto e il percorso di accettazione che attraversa ognunǝ di noi. Partendo dalla paura del rifiuto, Piper descrive le diverse fasi di questo processo. Dalla fase in cui cerchiamo di plasmarci, di assumere gesti e stili che non ci appartengono, a quella in cui cerchiamo in tutti i modi di essere unicɜ, per concludere con la realizzazione che siamo tuttɜ simili e connessɜ nella nostra differenza: La consapevolezza che il proprio orgoglio personale e il rispetto di sé traggono forza non dalla propria unicità isolata ma dalla comunità con cui si condividono qualità in comune.
La pagina dedicata all’artista Bonnie Sherk parla invece del suo progetto The Farm, una comunità autogestita nei pressi di San Francisco in cui le persone cercano di vivere in armonia con la natura e attraverso modalità alternative di vita e condivisione.
Due approcci totalmente diversi all’idea di comunità e partecipazione attiva, due strategie di sopravvivenza all’interno di una società che già negli anni Ottanta cominciava ad essere sempre più frammentata e alienante.
Cos’è una strategia? Come si sviluppa? Da dove arriva? Quanta storia c’è in un’azione che ripetiamo ogni giorno? Quanto ne siamo consapevoli? E quanto è necessario esserlo? Come possiamo tramandare la storia senza operare cancellazioni e/o rivisitazioni? Quante storie convivono in una persona, in un luogo e in un tempo?
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Esercizio preso dal libro Training for Exploitation? Politicising employability and reclaiming education realizzato nel 2017 dal collettivo di artistз-attivistз Precarious Workers Brigade. Un libro molto interessante sul lavoro creativo e sul modo in cui ci viene insegnato ad auto-sfruttarci in nome di contatti, opportunità e visibilità. La parte finale del libro è dedicata ad una serie di esercizi da fare in classe o in gruppo per facilitare discussioni attorno al tema ed è proprio da questa sezione che sono prese queste due pagine. L’esercizio si chiama Target Practice (Allenamento di tiro al bersaglio) e richiede allɜ partecipantɜ di posizionarsi, fisicamente o su un foglio, all’interno dello schema in base a dove sentono di essere e dove vorrebbero essere in futuro rispetto alle categorie indicate, ovvero Povertà/Lusso e Flessibilità/Stabilità. Un esercizio per discutere paure e desideri così come il significato che questi stessi termini possono avere per le singole persone. È un esercizio che mi ha particolarmente colpito perchè potrebbe essere riproposto in mille varianti, con tante coppie di termini diverse e che ci richiede di attivare una riflessione su noi stessз in relazione ad altri corpi e condizioni.
Dove mi trovo? In relazione a chi? Con chi condivido uno spazio o un progetto? Quali punti abbiamo in comune? Dove ci possiamo incontrare? Che alleanze possono nascere? Come cambia la mia posizione nel tempo? Come cambia rispetto al gruppo in cui sono?
Uno striscione che ho visto mentre camminavo nel mio quartiere e che mi ha fatta un po’ piangere. Tornando all’articolo d’apertura di questo numero devo proprio dire che sono esausta. Il panorama politico degli ultimi anni mi ha svuotata di ogni briciola di speranza. Ogni giorno giornali, podcast e telegiornali ci mostrano la rassegna degli orrori umani e del capitale e sembra non ci sia nessuna via d’uscita. Tutto il male lo abbiamo di fronte, sempre. Sette giorni su sette. Ma se c’è una cosa che mi aiuta e mi fa stare calma è parlare con le persone intorno a me e sentire tutto il bene che abbiamo nel cuore, la sensazione che nonostante tutto, ancora crediamo che una società più giusta sia possibile. O parafrasando il titolo della nuova serie di Zerocalcare, che questo mondo non ci renderà cattivз. Vedo le mie amiche sbattersi costantemente per migliorare le cose, realizzare progetti bellissimi, gestire assemblee partecipate, in cui creare senso di appartenenza e immaginare nuove modalità di vita e creazione. O semplicemente non cedere.
Questo mi riporta alla mente una citazione di Foucault che lessi anni fa nel libro Commonwealth di Michael Hardt e Antonio Negri e che si può tradurre così: Non pensare che si debba essere tristi per essere militanti, anche se la cosa che si combatte è abominevole. È la connessione del desiderio alla realtà (e non il suo ripiegamento nelle forme della rappresentazione) che possiede forza rivoluzionaria. Promemoria per i giorni di pioggia.
Ciliegie
i nostri pick culturali
🍒 Podcast 🍒
People who knew me (BBC radio 5, disponibile sulle principali piattaforme) - una donna finge la propria morte durante l’11 settembre e si trasferisce in California per iniziare una nuova vita fuggendo dai propri problemi. Per chi ascolta volentieri in inglese, una serie di 10 episodi tratta dall'omonimo romanzo di Kim Hooper.
🍒 Letture 🍒
Un romanzo: La figlia unica di Guadalupe Nettel (ed. La nuova frontiera), un viaggio nella fluidità dei rapporti e dell’idea di maternità che ho divorato in due giorni, con la voglia di leggere molto altro di Nettel.
Un saggio: Astri amari: per un'astrologia transfemminista dell’omonima Astri Amari (ed. Effequ), una non-guida nel mondo dell’astrologia che vi farà mettere in discussione tutto ciò che vi è stato detto sul tema attraverso una scrittura poetica e appassionata.
Bonus estate 🌴: Radical. A life of my own, memoir-saggio della scrittrice e regista cinese Xiaolu Guo (ed. Penguin Vintage), un viaggio etimologico e personale tra lingue, continenti, amori sentimentali e platonici, radicamenti e libertà personale. Al momento disponibile solo in inglese.
Un articolo: Queste ultime settimane di totale caos climatico ci hanno messo a dura prova, fisicamente ed emotivamente. Sul New Yorker, Jia Tolentino scrive di ecoansia nell’epoca della crisi climatica.
Misc: SECCHIATE, una newsletter molto bella sul mondo della notte + Let’s go girls! di Alessia Bisini per consigli davvero super su musica, podcast e molto altro (cherry on top quest’articolo di Alessia sui Paramore che ecco, se non avete mai cantato a squarciagola e con strafottenza adolescenziale Misery Business non so se possiamo essere amicз)
🍒 Musica 🍒
Napoli segreta, due compilation perfette come sottofondo per le sere d’estate (disponibile su Spotify e Apple Music) + The Age of Pleasure, nuovo album di Janelle Monáe segnalatoci da un’amica (grz Gea!) come album dell’estate, non possiamo che essere d’accordo
🍒 Film 🍒
A cura di Victoria Chuminok <3
***da non perdere al cinema il fenomeno culturale pop del momento, Barbie diretto da Greta Gerwig! (consiglio di recuperare le storie in evidenza di @eugenialauraraffaella • Instagram photos and videos dopo la visione del film per approfondire la discussione sulle questioni trigger come il capitalismo, il femminismo, Casa Villa Mojo Dojo 🐎 e il rosa)
Cléo dalle 5 alle 7 (Cléo de 5 à 7) diretto da Agnès Varda nel 1962 che con con a disposizione un piccolo budget decide di girare nella sua Parigi. “Cosa suscitava in me Parigi? Una paura diffusa della grande città e dei suoi pericoli, di perdermici sola e incompresa, magari anche spintonata dai passanti.” Cléo è la protagonista che seguiremo per 90 minuti del film e che corrispondono al tempo dei suoi incontri, a volte brevi e fuggiaschi, a volte percepiti come lunghi e interminabili. Il tempo percepito è il protagonista della storia mentre aspettiamo insieme a Cléo l’incontro con il suo medico fissato per le 7 per scoprire l’esito degli esami di un sospetto tumore.
Le margheritine (Sedmikràski) di Vera Chitilová del 1966 non è un manifesto all’ozio ma sicuramente è un film che vi farà venire la voglia di saltare sul letto, far finta di dimenticarvi i vostri impegni e andare a comprare una torta altissima piena di crema e burro da mangiare nel letto (consiglio non richiesto: fatelo prima e mangiatela nel letto mentre guardate questo film).
Le protagoniste accettano nelle loro brevi conversazioni che il mondo è corrotto e cattivo quindi anche loro possono esserlo e, senza seguire regole e convenzioni, possono fare quello che vogliono, tra cui prendersi gioco degli uomini che si dichiarano, dare fuoco agli oggetti in camera da letto, sfruttare e rimandare a casa i potenti burocrati che speravano in un finale diverso o ubriacarsi e disturbare i clienti di un ristorante. Il gioco femminile e l’energia distruttiva delle due Marie sono racchiusi nella cornice di due brevi estratti di filmati dei bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale e Chitilová ci lascia un ultimo messaggio: “Questo film è dedicato a tutti coloro per i quali l’unica fonte di indignazione è un’insalata calpestata”.
Visto l’imminente ritorno in libreria dell’opera di Carla Lonzi è giusto consigliarvi questo documentario: Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi del 2007. Un collage di immagini e rappresentazioni del femminile anni ‘60 e ‘70 sui temi ancora oggi irrisolti come l’aborto, la lotta contro il maschilismo e pari diritti sul lavoro. Il documentario narra le esperienze di tre donne di diverse origini e esperienze sociali, ma che hanno in comune una rivendicazione contro chi le vuole mogli, madri e figlie obbedienti alle regole del mondo maschile.
"avete mai pensato di lasciarvi seriamente?"
"eh avoja"
"e per quale motivo?"
"il femminismo. mi sono sentito violentemente aggredito e sbattuto. mi ha detto 'adesso la relazione tra uomo e donna è così, se ti va bene, bene, altrimenti sei un maschio fascista'"
🍒 L’Internet 🍒
Molestie sessuali e mondo della pubblicità, una ciliegia amara ma necessaria. E un’altra, amarissima.
Profili instagram che sanno di infanzia e benessere. Ma anche di vita adulta e rancore.
Regole del buon vicinato.
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SOLUZIONI CRUCIVERBA
Orizzontali: 4. Tormentone; 6. Sottotetta; 9. Birkenstock; 11. Mare; 12. StudioAperto; 14. Polase; 17. Zanzare; 18. AriaCondizionata; 19. Zampirone; 21. Cicaleggio; 22. Città; 23. Gazosa
Verticali: 1. Viennetta; 2. Summertime; 3. Ferie; 5. AscellaPezzata; 7. Estathe; 8. TemptationIsland; 10. Reggiseno; 13. AmicaConLaBarca; 15. DanzaKuduro; 16. Festivalbar; 20. Calippo; 24. Sabbia
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Noi siamo arrivate alla fine di questo quindicesimo numero di Interstizi.
Grazie per essere arrivatə fin qui, per averci letto, per averci dedicato del tempo.
Interstizi è in fase di sperimentazione permanente quindi se avete suggerimenti, feedback o volete semplicemente condividere con noi cosa vi passa per la testa potete rispondere a questa mail, seguirci su Instagram o scriverci a interstizinewsletter@gmail.com - se invece sei qui per sbaglio ma vuoi saperne di più puoi iscriverti qui
Interstizi è un progetto a cura di Fabiola Fiocco e Giulia Pistone.